15 aprile 2020

Ebrezza di alba - Kosztolányi Dezső

Claude Monet - View of Vétheuil
Ebrezza di alba - Kosztolányi Dezső

Te lo racconto questo
se non ti annoio,
ieri notte alle tre,
finito il lavoro,
sono andato a letto.
Ma nella mia mente
la macchina da scrivere
continuava a battere
col ticchettio tanto forte
che non riuscivo a dormire.
Il sonno non venne, sebbene
lo desiderassi fortemente,
ma chiamandolo con parole,
con sonniferi potenti,
e contando le pecore
non serviva a niente.
Quello che avevo scritto
mi guardava dritto.
Mi stressavano il cuore
le quaranta sigarette.
E tutto il resto,
il buio, tutto.
Allora mi alzo e non mi importa,
cammino su e giù nella stanza,
attorno a me la mia famiglia,
sulle loro labbra la dolcezza
di bei sogni, beati loro,
e mentre io brancolo nel buio,
come un ubriaco, guardo
fuori dalla finestra.

Aspetta, come te lo dico,
come te lo spiego?
Tu conosci la mia casa,
ti ricordi la mia stanza,
lo sai quanto povera
ed abbandonata sembra di qua
a quell'ora la strada.
Ci vedi dentro le case
attraverso le finestre,
gli uomini sdraiati e ciechi,
scrutano con gli occhi chiusi,
nella nebbia della loro mente,
che li inganna e li tradisce,
perchè il cervello di anemia soffre.
Accanto a loro le scarpe e vestiti,
e nella stanza sono chiusi,
come in una scatola,
che hanno costruito da svegli
con tanta fatica.
Ma se le guardi in questa maniera
ogni casa è come una gabbia.
Si sente ticchettare la sveglia,
ora cammina zoppo, fra poco suona:
"svegliati alla realtà, è ora!"
E dorme anche la casa, morta,
e se fra cent'anni crolla,
ci crescerà gramigna,
e non sospetterà nessuno,
se era nostra casa o una stalla.

Ma lassù, amico mio, là sopra,
il cielo pulito, di luce splendente,
inamovibile sebbene tremante,
come la fedeltà.
Il cielo del tutto simile
alla coperta di mia madre,
ed alla macchia blu di acquarello
che si allargò sul mio quaderno.
E l'anima delle stelle
respira senza far rumore,
nella notte dell'autunno mite,
che il freddo precede.
Di lassù lontano ed oltre,
loro, che hanno visto
l'armata di Annibale,
ora guardano me, in piedi qua,
in una finestra della città.

E non so che mi successe allora,
ma mi sembrò sentire un'ala,
e mi si avvicinò quello
che avevo seppellito tempo fa,
l'età dell'infanzia.
E guardai tanto a lungo
i ricchi miracoli del cielo
che arrivò l'albeggiamento
dall'oriente e nel vento,
scintillanti, si mossero
appena appena le stelle.
E là sopra nella distanza
si accese una fascia luminosa,
e si aprì il portone
di un castello celestiale,
si avvampò la fiamma,
e la folla degli ospiti
cominciò a sperdersi.

E nelle tenebre dell'alba,
la notte di ballo finiva,
fuori nell'ingresso l'ospite
- un gigante del cielo - salutò,
si sentì tintinnio e sussurro,
come quando il ballo finisce
e si chiama il cocchiere.
Si vide un velo di pizzo,
che da lontano come
tenda di diamante scende,
su un vestito splendente
che una donna bellissima indossa
e su di lei un diamante
che sparge luce su questa pace,
sul blu pallido e celestiale.

Oppure un angelo
che con un bel gesto
si aggiusta il suo diadema,
e in un cocchio leggero sale
senza fare alcun rumore,
e vola via con la carrozza.
Mentre i cavalli corrono selvaggi,
sulla Via Lattea illuminata
da fuochi artificiali,
come al carnevale,
tra stelle filanti e coriandoli,
tra centinaia di cocchi,
scintillano i loro ferri.

E stavo là con la bocca aperta
e esclamai di gioia,
che nel cielo ogni notte
un ballo simile si tiene,
e in me si illuminò
il significato
di questo gran mistero,
che le fate del cielo
sulle vie dell'infinito
arrivata l'alba,
tornano tutte a casa.

E rimasi così fino al mattino
e guardavo solo.
Poi dissi d'improvviso:
e tu che ci fai qui,
su questa terra,
che leggende cerchi,
che sirene ti tengono in balia?
Cosa c'era più importante,
ora che sono passate tante estati,
e tanti inverni gelanti,
e tante notti inutili,
che vedi solo ora questo ballo?

Cinquanta, sono cinquant'anni,
che il ballo si festeggia qui
sopra di me, e ahimè,
i miei vicini celestiali
mi vedono ad asciugare gli occhi.
Te lo confesso, mi sono inchinato
e tutto ciò ho ringraziato.
Vedi, lo so che non ho fede,
e so pure che dovrò andarmene.
Col cuore, come corda tesa
cantai allora all'azzurro.
Per Lui che non sa nessuno
dov'è e nemmeno io lo trovo
né ora né da morto.

Ora che i miei muscoli
non sono più tanto forti,
capisco che finora
stavo nella polvere
tra anime e briciole,
ma comunque sia
di un signore
misterioso e potente
ero sempre l'ospite.

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