Vignetta di Mauro Biani
Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
di
Italo
Calvino
C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.
Nel
finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun
senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto
nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo
identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non
escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione
illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in
mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili
prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale
interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per
quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua
tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire
il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè
poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma
benemerita.
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.
Di
tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva
d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere
e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per
considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la
soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si
trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro
centro di potere.
Cosicché
era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi
tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure
se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero
accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi
illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente
una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo
tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e
tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano
come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone
deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo
riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.
In
opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che,
usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con
un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di
cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale
al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino
a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere
il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Erano
costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a
grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più
corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic
nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che
stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro
testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il
guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla
soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con
la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a
chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale
agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo
facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo
trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che
interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci
fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società
migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano
rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come
in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una
controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una
controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società,
ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il
proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva
dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale,
così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora
per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere
la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo
magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere
immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è
stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.
da Repubblica, 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”, Meridiani, Mondadori
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