Antonio Ligabue - Lotta tra galli
da “I racconti” – Italo Svevo
La madre
In una valle chiusa
da colline boschive, sorridente nei colori della primavera, s’ergevano una
accanto all’altra due grandi case disadorne, pietra e calce. Parevano fatte
dalla stessa mano, e anche i giardini chiusi da siepi posti dinanzi a ciascuna
di esse, erano della stessa dimensione e forma. Chi vi abitava non aveva però
lo stesso destino.
In uno dei giardini,
mentre il cane dormiva alla catena e il contadino si dava da fare intorno al
frutteto, in un cantuccio, appartati, alcuni pulcini parlavano di loro grandi
esperienze. Ce n’erano altri di più anziani nel giardino, ma i piccini il cui
corpo conservava tuttavia la forma dell’uovo da cui erano usciti, amavano di
esaminare fra di loro la vita in cui erano piombati, perché non vi erano ancora
tanto abituati da non vederla. Avevano già sofferto e goduto perché la vita di
pochi giorni è più lunga di quanto possa sembrare a chi la subì per anni, e
sapevano molto, visto che una parte della grande esperienza l’avevano portata
con sé dall’uovo. Infatti appena arrivati alla luce, avevano saputo che le cose
bisognava esaminarle bene prima con un occhio eppoi con l’altro per vedere se
si dovevano mangiare o guardarsene.
E parlarono del mondo
e della sua vastità, con quegli alberi e quelle siepi che lo chiudevano, e
quella casa tanto vasta ed alta. Tutte cose che si vedevano già, ma si vedevano
meglio parlandone.
Però uno di loro,
dalla lanuggine gialla, satollo – perciò disoccupato – non s’accontentò di
parlare delle cose che si vedevano, ma trasse dal tepore del sole un ricordo
che subito disse: “certamente noi stiamo bene perché c’è il sole, ma ho saputo
che a questo mondo si può stare anche meglio, ciò che molto mi dispiace, e ve
ne le dico perché dispiaccia anche a voi”. La figliuola del contadino disse che
noi siamo tapini perché ci manca la madre. Lo disse con un accento di sì forte
compassione ch’io dovetti piangere.
Un altro più bianco e
di qualche ora più giovine del primo, per cui ricordava ancora con gratitudine
l’atmosfera dolce da cui era nato, protestò: “noi una madre l’abbiamo avuta. E
quell’armadietto sempre caldo, anche quando fa il freddo più intenso, da cui
escono i pulcini belli e fatti”.
Il giallo che da
tempo portava incise nell’animo le parole della contadina, e aveva perciò avuto
il tempo di gonfiarle sognando di quella madre fino a figurarsela grande come
tutto il giardino e buona come il becchime, esclamò, con un disprezzo destinato
tanto al suo interlocutore quanto alla madre di cui costui parlava: “se si
trattasse di una madre morta, tutti l’avrebbero. Ma la madre è viva e corre
molto più veloce di noi. Forse ha le ruote come il carro del contadino. Perciò
ti può venire appresso senza che tu abbia il bisogno di chiamarla, per
scaldarti quando sei in procinto di essere abbattuto dal freddo di questo
mondo. Come dev’essere bello di avere accanto, di notte, una madre simile”. Interloquì
un terzo pulcino, fratello degli altri perché uscito dalla stessa macchina che
però l’aveva foggiato un po’ altrimenti, il becco più largo e le gambucce più
brevi. Lo dicevano il pulcino maleducato perché quando mangiava si sentiva
battere il suo beccuccio, mentre in realtà era un anitroccolo che al suo paese
sarebbe passato per compitissimo. Anche in sua presenza la contadina aveva
parlato della madre. Ciò era avvenuto quella volta ch’era morto un pulcino
crollato esausto dal freddo nell’erba, circondato dagli altri pulcini che non
l’avevano soccorso perché essi non sentono il freddo che tocca agli altri. E
l’anitroccolo con l’aria ingenua che aveva la sua faccina invasa dalla base
larga del beccuccio, asserì addirittura che quando c’era la madre i pulcini non
potevano morire.
Il desiderio della
madre presto infettò tutto il pollaio e si fece più vivo, più inquietante nella
mente dei pulcini più anziani. Tante volte le malattie infantili attaccano gli
adulti e si fanno per loro più pericolose, e le idee anche, talvolta.
L’immagine della madre quale s’era formata in quelle testine scaldate dalla
primavera, si sviluppò smisuratamente, e tutto il bene si chiamò madre, il bel
tempo e l’abbondanza, e quando soffrivano pulcini, anitroccoli e tacchinucci
divenivano veri fratelli perché sospiravano la stessa madre.
Uno dei più anziani
un giorno giurò ch’egli la madre l’avrebbe trovata non volendo più restarne
privo. Era il solo che nel pollaio fosse battezzato e si chiamava Curra, perché
quando la contadina col becchime nel grembiale chiamava curra, curra ,
egli era il primo ad accorrere. Era già vigoroso, un galletto nel cui animo
generoso albeggiava la combattività. Sottile e lungo come una lama, esigeva la
madre prima di tutto perché lo ammirasse: la madre di cui si diceva che sapesse
procurare ogni dolcezza e perciò anche la soddisfazione dell’ambizione e della
vanità.
Un giorno, risoluto,
Curra con un balzo sgusciò fuori dalla siepe che, fitta, contornava il giardino
natìo. All’aperto subito sostò intontito. Dove trovare la madre nell’immensità
di quella valle su cui un cielo azzurro sovrastava ancora più esteso? A lui,
tanto piccolo, non era possibile di frugare in quell’immensità. Perciò non
s’allontanò di troppo dal giardino natìo, il mondo che conosceva e, pensieroso,
ne fece il giro. Così capitò dinanzi alla siepe dell’altro giardino.
“Se la madre fosse
qui dentro – pensa – la troverei subito”. Sottrattosi all’imbarazzo
dell’infinito spazio, non ebbe altre esitazioni. Con un balzo attraversò anche
quella siepe, e si trovò in un giardino molto simile a quello donde veniva.
Anche qui v’era uno
sciame di pulcini giovanissimi che si dibattevano nell’erba folta. Ma qui v’era
anche un animale che nell’altro giardino mancava. Un pulcino enorme, forse
dieci volte più grosso di Curra, troneggiava in mezzo agli animalucci coperti
di sola peluria, i quali – lo si vedeva subito – consideravano il grosso,
poderoso animale quale loro capo e protettore. Ed esso badava a tutti. Mandava
un ammonimento a chi di troppo s’allontanava, con dei suoni molto simili a
quelli che la contadina nell’altro giardino usava coi propri pulcini. Però
faceva anche dell’altro. Ad ogni tratto si piegava sui più deboli coprendoli
con tutto il suo corpo, certo per comunicar loro il proprio calore.
“Questa è la madre –
pensò Curra con gioia. – L’ho trovata ed ora non la lascio più. Come m’amerà!
Io sono più forte e più bello di tutti costoro. E poi mi sarà facile di essere
obbediente perché già l’amo. Come è ella e maestosa. Io già l’amo e a lei
voglio sottomettermi. L’aiuterò anche a proteggere tutti cotesti insensati”.
Senza guardarlo la
madre chiamò. Curra s’avvicinò credendo di essere chiamato proprio lui. La vide
occupata a smovere la terra con dei colpi rapidi degli artigli poderosi, e
sostò curioso di quell’opera cui egli assisteva per la prima volta. Quand’essa
si fermò, un piccolo vermicello si torceva dinanzi a lei sul terreno denudato
dall’erba. Ora essa chiocciava mentre i piccini a lei d’intorno non
comprendevano e la guardavano estatici.
“Sciocchi! – pensò
Curra. – Non intendono neppure che essa vuole che mangino quel vermicello.” E,
sempre spinto dal suo entusiasmo d’obbedienza, rapido si precipitò sulla preda
e l’ingoiò. E allora – povero Curra – la madre si lanciò su lui furibonda. Non subito
egli comprese, perché ebbe anche il dubbio ch’essa, che l’aveva appena trovato,
volesse accarezzarlo con grande furia. Egli avrebbe accettato riconoscente tutte
le carezze di cui egli non sapeva nulla, e che perciò ammetteva potessero far
male. Ma i colpi del duro becco, che piovvero su lui, certo non erano baci e
gli tolsero ogni dubbio. Volle fuggire, ma il grosso uccello lo urtò e,
ribaltatolo, gli saltò addosso immergendogli gli artigli nel ventre. Con uno
sforzo immane, Curra si rizzò e corse alla siepe. Nella sua pazza corsa ribaltò
dei pulcini che stettero lì con le gambucce all’aria pigolando disperatamente.
Perciò egli poté salvarsi perché la sua nemica sostò per un istante presso i
caduti. Arrivato alla siepe, Curra, con un balzo, ad onta di tanti rami e
sterpi, portò il suo piccolo ed agile corpo all’aperto. La madre, invece, fu
arrestata da un intreccio fitto di fronde. E là rimase maestosa guardando come
da una finestra l’intruso che, esausto, s’era fermato anche lui. Lo guardava
coi terribili occhi rotondi, rossi all’ira. “Chi sei tu che t’appropiasti il
cibo ch’io con tanta fatica avevo scavato dal suolo?”. “Io sono Curra – disse
umilmente il pulcino – ma tu chi sei e perché mi facesti tanto male?” Alle due
domande essa non diede che una sola risposta. “Io sono la madre”, e
sdegnosamente gli volse il dorso.
Qualche tempo
appresso, Curra, oramai un magnifico gallo di razza, si trovava in tutt’altro
pollaio. E un giorno sentì parlare da tutti i suoi nuovi compagni con affetto e
rimpianto della madre loro. Ammirando il proprio, atroce destino, egli disse
con tristezza: “la madre mia, invece, fu una bestiaccia orrenda, e sarebbe
stato meglio per me ch’io non l’avessi mai conosciuta.”
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