15 aprile 2018

Da Storia di due anime – Matilde Serao

Da Storia di due anime – Matilde Serao

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In quel pomeriggio d'inverno, nella piccola via annottava prima delle cinque. E Domenico Maresca, a cui premeva assai di lavorare intorno al suo san Michele, domandato con grandi insistenze dal parroco di Atripalda, dalla commissione, dal sindaco, da quanti avevan messo insieme il denaro, per avere un san Michele nuovo, loro protettore, aveva fatto accendere da Nicolino, il ragazzo, due grandi lumi a petrolio che avevano, dietro, un riflettore di latta, per raddoppiare la loro luce: e lui e il doratore di Venosa, lavoravano, uno davanti al santo, uno dietro, in silenzio, un po' curvi sotto i berretti bianchi di carta, con le larghe bluse azzurre tutte macchiate di bianco, di giallo, di rosso, di oro, di argento. Faceva molto freddo, fuori: non lì dentro, ove essi stavano dalla mattina: piuttosto, lì dentro, i cattivi odori delle tinte si eran fatti più forti, più densi, poiché non si mutava l'aria. In quella grossa giornata di fatica, malgrado l'abitudine, quelle puzze finivano per stordirli, con la testa pesante e vuota. Domenico Maresca, più pallido del consueto, e il venosino quasi verdastro nel suo bruno colore di contadino, strappato alle aride terre di Basilicata.
Qualcuno fece stridere la maniglia per entrare.
- Buona notte, a Vossignoria - disse una voce di donna.
- Buona notte, donna Clementina - rispose Domenico, senza distrarsi dal suo lavoro.
Colei che era entrata, era una donna sulla quarantina, ma che sembrava molto più vecchia, coi suoi capelli grigiastri mal pettinati, con la sua faccia oscura piena di rughe e le labbra di un viola pallido. Era vestita poveramente, con uno scialle nero stretto sul collo e sul petto, che mal la doveva difendere contro il freddo: si trascinava stancamente, e cercò, subito, una delle due o tre sedie: vi si gettò sopra, con un sospiro dolente.
- Che ci dite di bello, donna Clementina?- chiese il pittore, senza levare la testa dal lavoro, adoperando la frase curiosa e convenzionale del popolo.
- Niente di bello, don Domenico mio, proprio niente. Tutte cose brutte. Miseria, malattie e disperazione. Non ne posso più.
E la voce triste e roca le si soffocò nella gola. Gittata su quella sedia, la donna così mal vestita e sudicia, così pallida e sfinita nell'aspetto, pareva uno straccio umano.
- Non vi scoraggiate, donna Clementina - mormorò vagamente Domenico, a cui quei lagni non eran nuovi, ma che lo commovevano sempre.
- Dite bene, voi! Avete un'arte nelle mani, che Dio ve la benedica, la fatica non vi manca, qualche soldo da parte lo avete, siete solo: dite bene! Sapete quanti figli ho, io? Sei! E fra tre mesi sono sette. Sapete il più grande, quanti anni ha? Dodici! E il più piccolo, un anno. Ogni mattina e ogni sera queste sei bocche si aprono per mangiare, don Domenico mio, e hanno una fame, una fame!
- E vostro marito che fa?
- Che ha da fare, poveretto! Sta col sediario della chiesa della Pietrasanta, che lo tiene con sé, proprio per carità, dice lui, e intanto il sediario guadagna cinque o sei lire al giorno, quando non è vesta, e una ventina di lire, la domenica, per l'affitto delle sedie. Pasquale mio piglia quindici soldi, i giorni di lavoro, venticinque la domenica. E fatica! fatica! Il sediario dovrebbe spazzare la chiesa, lavare i vetri, spolverare tutto, e si scarica su Pasquale mio, mentre egli fa il signore, il sediario e le sue figliuole portano il cappello!
- E voi, donna Clementina?
- Io? Voi lo sapete che guadagno, io! Il lavoro non mi manca, perché, non faccio per vantarmi, poche sarte di santi sanno tener l'ago in mano, come Clementina Ascione; e se si vuol vestir bene una santa Genoveffa, un san Ciro, si deve venire da me. Don Mimì, l'anno scorso una veste per un'Assunta, che doveva andare a santa Maria di Capua, la veste e il manto, don Mimì, una bellezza! Ebbene, che ne ricavo? Quando ho messo insieme venticinque, trenta soldi al giorno, è una meraviglia. Si paga poco. Il lavoro non si capisce. Ognuno vuole spendere pochissimi soldi. Voi me lo insegnate. Non vi è più religione: non vi sono più denari. E tutti questi figli, Domenico mio! Ogni quindici mesi, uno: come se vi mancasse la razza della pezzenteria, in questo mondo: come se vi mancasse gente, per perpetuare la miseria.
- E che ne fate, di tutti questi figli?
- Eh, i più grandi badano ai più piccoli. Qualcuno va alla scuola pubblica; dicono che non si paga, eppure qualche soldo ve lo tirano sempre. Il primo sta col sacrestano della Rotonda, che gli dà da mangiare, un piatto caldo, ma neppure un centesimo. Don Domenico mio, voi siete un signore, ma ascoltatemi bene, non vi maritate mai!
- E voi, perché vi siete maritata? - disse, con un fiacco sorriso, il pittore dei santi.
- Che volete, fu una stupidaggine! Io ero stata sempre ragazza di chiesa, mi chiamavano la bizzochella, mi volevo fare conversa a Regina Coeli e poi monaca, se ne ero degna: il Padre Eterno non mi ha voluta. Io vidi Pasquale, Pasquale vide me, non avevamo un soldo, né io, né lui, salvo la gioventù, la voglia di lavorare e la religione. Ah che sbaglio, che sbaglio! Non vi ammogliate, don Domenico, vi parlo come una madre.
Egli tacque, pensoso. Da qualche momento non lavorava più, vinto, forse dalla stanchezza, da quel peso sulla testa che faceva vacillare, talvolta, il suo cranio troppo grosso. Si appressò alla sarta dei santi, così querula nella sua onesta e laboriosa miseria, così disfatta dalla sua esistenza, e le chiese:
- Mi avete, poi, portata la veste di santa Rosalia, col manto? Io ho da mandarla a Palermo, santa Rosalia, a un monsignore.
- Non l'ho potuta finire, don Domenico mio - mormorò ella, a voce bassa. - Questa giornata ho avuto tali e tanti malanni addosso, con questa gravidanza, col mio Gaetanuccio che ha la tosse convulsiva e, certo, la darà agli altri. Domani sera ve la porto, don Domenico. Solamente... questa sera... voi mi dovete aiutare... - E abbassò ancora la voce, vergognandosi di quella faccia verde e chiusa del basilisco Gaetano Ursomando, che seguitava a tirar fuori l'argento sulla corazza di san Michele.
- ... anticiparmi cinque lire.
- Io vi ho abbastanza anticipato, donna Clementina - le rispose, anche a voce bassa, freddamente, ma senza durezza, il pittore dei santi.
- È vero, è vero, avete ragione, chi può negarvelo? Ma io sconterò tutto, ve lo giuro! Ne dovete fare Madonne, voi, don Domenico, e io vestirle, e, tutte belle, da far restare meravigliati tutti i divoti! Io sconterò tutto; ma, stasera, non mi abbandonate, datemi quest'altro anticipo, e poi faremo i conti. Ho da far la cena a sei figli e comprare la medicina per Gaetanuccio. Se mi fate questo favore, io vado da don Carluccio, qua, in piazza, e il pover'uomo, malgrado i suoi guai, mi fa risparmiare...
- Voi andate da don Carluccio, il farmacista? - chiese, dopo una esitazione, Domenico Maresca.
- Già. È pieno di tristezza, anche lui, perché nessuno ne manca. Ma quando mi vede, siccome mi conosce, da tanti anni, ed io conosco lui, che era giovane e ricco, oh tanto ricco, così mi fa risparmiare qualche soldo!
- Ha tanta tristezza? Era molto ricco?
- Avevano carrozza e cavalli, i Dentale! Tenevano una grande fabbrica di medicine, fuori Napoli, verso san Giovanni a Teduccio: e don Carluccio sposò un'altra Dentale, sua cugina, per non fare uscire le ricchezze dalla famiglia. Che sfarzo, quel matrimonio! Io era ragazza, allora, e abitavo dirimpetto al loro palazzo e mi chiamarono su, in cucina, ed ebbi pranzo, e due gelati, e confetti! E quando nacque Anna! Che battesimo, don Domè! Solo il vestito di ricamo della bambina, valeva trecento lire. Chi glielo avesse detto, a donna Nannina, quel che le doveva succedere!
- Voi la vedete, qualche volta, la signorina Anna? - soggiunse, con voce velata, Domenico.
- Raramente. Che volete, era ricca, è diventata quasi povera, e non se ne può capacitare. Non parla, non si lagna, non versa una lagrima, ma io so che ne patisce moltissimo. Aveva già dieci anni, quando cominciarono i cattivi affari. Essa capiva tutto. Fu un seguito di disgrazie; a quindici o sedici anni, vi fu il fallimento, e Anna vedette morire sua madre di un tifo, una malattia nella testa, venutale pel dispiacere. Così, a poco a poco, venduto tutto, padre e figlia si sono ridotti, anni fa, con qualche migliaio di lire, in questa farmacia, e ora sono pieni di debiti, sempre, e non possono andare avanti, perché non hanno capitali, e la farmacia è quasi vuota di medicine...
- Poveretta... poveretta! - disse Domenico a occhi bassi.
- Sì, poveretta, proprio lei, perché fino adesso, almeno, ella stava sola sola, al terzo piano, in un quartino del palazzo Angiulli, e lì lavorava, in segreto, non uscendo quasi mai, vergognandosi di uscire, non avendo vestiti nuovi, perché donna Nannina è molto superba. Adesso, nientemeno, il padre la vuole far scendere in farmacia, a vendere, e lei non vuole, non vuole...
- Ha ragione!
Ragione, don Domè? Quando vi sono guai, bisogna fare tutto. Don Carluccio non può più pagare né il commesso, né il contabile: d'altronde, donna Nannina è una bella giovane...
- Voi che cosa dite, donna Clementina?
- Eh già, dico questo, che, senza peccato, una bella giovane può stare al pubblico, anzi tira gente e può trovare anche un buon partito...
- Queste sono le cinque lire - replicò don Domenico, asciuttamente, troncando il discorso.
La verbosa sarta dei santi lo guardò, un po' stupita, prendendo il danaro. Sentiva di aver detto qualche cosa di spiacevole, ma non comprendeva che cosa. Si levò. con uno sforzo. Don Domenico era tornato presso la statua di san Michele, ma non aveva ripresa la stecca.
- Tante grazie, don Domenico: Dio vi deve benedire, in ogni cosa che desiderate. Domani sera, vi porto la veste di santa Rosalia...
- Va bene, buona sera.
- Buona sera, buona sera.
Uscita donna Clementina, il pittore dei santi girò due o tre volte per la bottega, così, come se cercasse qualche cosa che non trovava. Il mal odore della creta, delle biacche, dei colori, si era fatto anche più opprimente.
- Io apro un poco: non importa che fa freddo - disse, come fra sé.
E schiuse la porta; la lasciò spalancata; uscì sulla via. Involontariamente, mentre faceva due o tre passi, avanti e indietro, quasi non sentendo il freddo acuto di tramontana che aveva persino disseccato l'umido della piccola strada, i suoi occhi si levarono, in alto, verso la gran muraglia del palazzo Angiulli, laterale alla chiesa della Madonna dell'Aiuto. Ivi, quattro linee di finestre e di balconi si sovrapponevano; alcuni illuminati, altri no, il secondo piano tutto chiuso e sbarrato, poiché la vecchia principessa di Santa Marta, quell'anno, non era tornata da Turi, in provincia di Bari, dove i suoi coloni si negavano di pagare i fitti, ed ella era restata in provincia per vessarli, per perseguitarli. In verità, gli occhi di Domenico erano fermi a un balconcino del terzo piano, balconcino illuminato fiocamente, come da una lampada velata. Ma niuno appariva dietro i cristalli, in quella gelida sera d'inverno. Un'ombra oscura di donna, venendo dai Banchi Nuovi, con passo leggiero, ma un po' lento, sfiorò il pittore dei santi: la persona si fermò.
- Buona sera, Mimì.
Era una voce assai tenue, ma musicale, quasi cristallina, nella sua tenuità. Un viso bianco, appena, si distingueva, nella cornice di uno scialle, di un cappuccio bruno.
- Buona sera, Gelsomina.
- Che fai, qui, a quest'ora, Mimì?- chiese la piccola voce, un po' cantante e così limpida.
- Prendo l'aria.
- Con questo freddo?
- Dentro, vi è cattivo odore, ho lavorato troppo, oggi. E tu, dove vai?
- Vado alla Congregazione di Spirito. Vi è la novena della Immacolata.
- Ti vuoi fare santarella, Gelsomina?
- Oh no! - disse la soave voce, con un profondo sospiro, pieno di rimpianto, pieno di rammarico.
- E perchè no?
- Perchè ... perchè ... perchè! - soggiunse la donna, la giovine, con un accento enigmatico, pieno di malinconia.
- Di' una preghiera, per me, Gelsomina - replicò Domenico, facendo per rientrare nella bottega.
- La dico, la dico. Buona sera; dopo la Congregazione, Mimì, vengo a darti la buonanotte.
(…)

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