I
E poi
bisognerà un giorno,
ragazzo
di Taino, scendere giù
ben
oltre la riva dorata di Luino
e sulla
sponda giungere
dove
non appaiono più barche
se non
stipate d’ombre e vane;
bisognerà,
cespo di pavone,
non
avere più amore, non avere più pane;
stendersi
insieme o soli
nell’impossibile
gelo della Città di rame
o
traghettare l’antica mestizia dello Stige
a una
tomba attraccare
e
sentirsi staccare, ora per ora,
in
piccolissima dimora,
la
carne amata e disperata,
la
baciata, adorata carne
ed i
capelli, l’ossa…
Nessuno
riaprirà mai la porta,
- a noi
che importa?-
chiusa
su te, su me.
Ma
quando? Un giorno,
ragazzo
dagli occhi assediati dal carbone,
volo e
luce d’ultima rondine,
tu, mio
povero rondone,
quando
sarà caduta a grani
dalla
clessidra la sabbia nelle mani,
rotto
per empietà divina, il cristallo delicato…
Non ci
sarà più freddo,
non ci
sarà più fuoco.
Ma quel
giorno, in silenzio,
nella
spera infinita della pace
o nel
suo nulla,
sarò io
la tua culla?
Rispondi,
ladro di teschi di Taino,
sarai
tu il mio cuscino?
II
Se ti
vedrò sporgere
di là
dal tuo silenzio
ora che
mia madre lentamente muore,
non
chiamerò più amore:
sudario
forse della mia già iniziata
ultima
stazione
anche
se lunga o brevissima forse,
tenerezza
scontrosa mia carissima
-ora
che lei distesa guarda
per
l’ultime volte i muri
e oltre
la finestra il mondo
e
chiedere sembra
cosa
siano i giorni
e cosa
mai lo spazio
tanto è
passato in luce
il suo
materno, umile strazio-
ti dirò
di sederti a me vicino
e non
chiedere, no
non
chiedere niente, cuore.
La tua
pupilla lascerà che si sciolga
dentro
il suo negro ardore
il mio
smarrito, povero dolore.
Nessun commento:
Posta un commento