27 giugno 2017

Il commiato del fantasma – Sylvia Plath

Paul Klee - Ghost Chamber with the Tall Door

Il commiato del fantasma – Sylvia Plath

Entra nella gelida terra di nessuno delle
cinque circa del mattino, vuoto del non-colore
dove al risveglio la testa sfrega via la fangosa partita
di sulfurei paesaggi onirici e oscuri rebus lunari
che sognati parevano tanto significanti,

si appresta a fronteggiare il confezionato universo
di sedie, scrivanie, lenzuola gualcite dal sonno.
È questo il regno dell’apparizione che svanisce,
fantasma oracolare che su gambe a spillo digrada
a un nodo di biancheria, il classico mucchietto di lenzuola.

Alzato su, come una mano, in segno di addio.
A questa congiuntura fra due mondi e due modi
d tempo incompatibili, la materia grezza
di nostri più prosaici pensieri assume un’aureola
di sublime rivelazione. E così le dipartite.

Sedia e scrittoio sono geroglifici
di qualche arcano discorso che il desto cervello ignora:
così i sagomati lenzuoli, prima di assottigliarsi nel nulla,
parlano con i segni di un perduto altromondo,
mondo che ci è bastato ridestarci per perderlo.

Traendo i suoi stracci-segnale soltanto sulla più esterna
frangia della visione mondana, questo fantasma va,
alza la mano, ciao, ciao, non giù dentro
il buzzo roccioso della terra, ma verso
una regione dove la nostra greve atmosfera

diminuisce e dio sa cosa c’è.
Un punto esclamativo contrassegna quel cielo
in squillante arancione come un’astrale carota.
Il suo circolare periodo, sfasato e acerbo,
sospende accanto ad esso il primo punto, iniziale

punto dell’Eden, vicino alla curva della nuova luna.
Và, fantasma di nostra madre e nostro padre, fantasma di noi,
e fantasma dei figli dei nostri sogni, in quelle lenzuola
significanti la nostra origine e fine,
al paese di cuccagna di ruote colorate

e primordiali alfabeti e mucche che mugghiano
e mugghiano zompando sopra lune, nuove come
quello spicchio tagliente verso il quale ora viaggi.
Salve e addio. Ciao, carissimo. O custode
del graal profano, del teschio sognante.

traduzione di Giovanni Giudici

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