11 aprile 2018

da Storia di O - Pauline Réage

opera di Fabian Perez

da Storia di O - Pauline Réage

(…)
Da due settimane, O era costantemente equipaggiata, e non si abituava ad esserlo, quando una sera al ritorno dal suo studio trovò un biglietto del suo amante che la pregava di essere pronta alle otto per andare a cena con lui e un suo amico. Una vettura sarebbe passata a prenderla, l'autista sarebbe salito a chiamarla. Il poscritto precisava che avrebbe dovuto prendere la giacca di pelliccia, vestirsi completamente di nero (completamente era sottolineato) e aver cura di truccarsi e profumarsi come a Roissy. Erano le sei.  Completamente in nero, e per la cena; ed era la metà di dicembre, faceva freddo, ciò voleva dire calze di seta nere, guanti neri, e con la gonna plissettata a ventaglio, un maglione pesante ornato di lustrini, o il suo giubbino di faglia. Scelse il giubbino di faglia. Era imbottito e trapuntato a larghe cuciture, disegnato e allacciato dal collo alla vita come le attillate giubbe da uomo del sedicesimo secolo, e se si adattava così perfettamente al petto era perché il reggiseno era fissato al suo interno. Era foderato della stessa faglia, e le sue falde dentate si arrestavano alle anche. Gli unici elementi chiari erano i grandi ganci
dorati, simili a quelli che si vedono alle scarpette da neve dei bambini: che si aprono e si chiudono con un rumore secco, su larghi anelli piatti. Nulla parve più strano ad O, dopo aver disposto i propri abiti sul letto, e ai piedi del letto le scarpette di daino dai tacchi a spillo, che vedersi, libera e sola nella stanza da bagno, meticolosamente occupata, dopo il bagno, a truccarsi, a profumarsi, come a Roissy. I cosmetici che possedeva non erano quelli che usava a Roissy. Nel cassetto della toletta, trovò del belletto per le guance - non se ne serviva mai - con cui si sottolineò l'areola dei seni. Era un belletto a malapena visibile quando veniva applicato, ma che poco dopo si scuriva. Dapprima credette di averne messo troppo, lo cancellò leggermente con l'alcool - era molto difficile toglierlo - e cominciò da capo: un rosso scuro peonia fiorì sulla punta dei suoi seni. Cercò invano di usarlo per dipingersi le labbra nascoste dal vello del grembo, ma su di esse non lasciò nessun segno. Finalmente trovò, fra gli astucci di rosso per labbra che aveva nello stesso cassetto, uno di quei rossetti a prova di baci di cui non amava servirsi perché erano troppo
secchi, e troppo indelebili. Aderì. Si preparò i capelli, il volto, e alla fine si profumò. René le aveva dato, contenuto in un vaporizzatore che lo proiettava in una fitta nebbia, un profumo di cui ignorava il nome, ma che sapeva di legno secco e di piante palustri, dagli aromi pungenti e un po' selvaggi. Sulla sua pelle, la nebbia si condensava e colava, sui peli delle ascelle e del grembo si fissava in goccioline minuscole. O aveva imparato a Roissy la lentezza: si profumò tre volte lasciando ogni volta il profumo asciugarsi su di lei. Si mise prima le calze e le scarpe dai tacchi alti, poi la gonna, poi il giubbino. S'infilò i guanti, prese la borsetta. Nella borsetta aveva la scatola della cipria, l'astuccio di rossetto, un pettine, la chiave, mille franchi. Indossati i guanti, tolse dall'armadio la pelliccia, e guardò l'ora sul comodino accanto al letto: erano le otto meno un quarto. Si sedette di sbieco sull'orlo del letto, e con gli occhi fissi sulla sveglia attese senza muoversi il suono del campanello. Quando alla fine squillò e lei si alzò per andare, notò nello specchio della toletta, prima di spegnere la luce, il proprio sguardo ardito, dolce e docile.
Quando spinse la porta del piccolo ristorante italiano davanti al quale l'automobile si era fermata, la prima persona che vide, al bar, fu René. Le sorrise teneramente, le prese la mano, e volgendosi verso una specie d'atleta dai capelli grigi le presentò, in inglese, Sir Stephen. A O fu offerto uno sgabello fra i due uomini, e mentre stava per sedersi René le disse a mezza voce di fare attenzione a non sciuparsi il vestito. L'aiutò a far scivolare la gonna oltre l'orlo dello sgabello, di cui lei sentì il cuoio freddo sulla pelle e il bordo guarnito di metallo contro l'incavo delle cosce, perché non osò sedersi subito più che per metà, nel timore di cedere alla tentazione di accavallare le gambe. La gonna si allargava intorno a lei. Il suo tallone destro era aggrappato a una traversa dello sgabello, la punta del piede sinistro toccava terra.
L'inglese, che le aveva rivolto un breve inchino senza proferir parola, non le aveva tolto gli occhi di dosso: O si rese conto che le guardava le ginocchia, le mani e alla fine le labbra, ma con tale calma, e con un'attenzione così precisa e sicura che O si sentì soppesata e misurata come lo strumento che ben sapeva di essere; fu come costretta dal suo sguardo e, per così dire, suo malgrado che si sfilò i guanti: sapeva che egli avrebbe parlato quando lei avrebbe avuto le mani nude, perché le sue mani erano singolari, e assomigliavano alle mani di un ragazzino piuttosto che alle mani di una donna, e perché portava all'anulare sinistro l'anello di ferro dalla triplice spirale d'oro. Invece no, sorrise: aveva visto l'anello. René beveva un Martini, Sir Stephen un whisky. Finì lentamente il suo whisky, poi attese che René avesse bevuto il suo secondo Martini e O il succo di pompelmo che René le aveva ordinato, e spiegò frattanto che se O fosse stata gentilmente d'accordo avrebbero potuto cenare nella sala sotterranea, più piccola e tranquilla di quella, al pianterreno, che era semplicemente un prolungamento del bar. - Ma certo - disse O, già raccogliendo la borsetta e i guanti che aveva posato sul banco. Allora, per aiutarla a lasciare lo sgabello, Sir Stephen le tese la mano destra, in cui essa mise la sua, rivolgendole finalmente la parola in modo diretto per dirle che aveva delle mani fatte apposta per portare dei ferri, tanto il ferro le stava bene. Ma dette in inglese, le sue parole recavano una traccia di ambiguità, e davano adito al dubbio se si trattasse soltanto di metallo o anche, o soprattutto, di catene.
Nella sala sotterranea, che era una semplice cantina imbiancata a calce ma fresca e gaia, c'erano in realtà solo quattro tavoli, uno solo dei quali era occupato da clienti che stavano finendo di cenare. Sulla parete era stata dipinta, a mo' di affresco, una mappa gastronomica dell'Italia, di colori teneri come quelli dei gelati alla vaniglia, al lampone, al pistacchio; questo fece pensare a O che alla fine della cena avrebbe ordinato un gelato, con mandorle sgusciate e panna fresca. Perché si sentiva felice e leggera, sotto il tavolo il
ginocchio di René toccava il suo, e quando lui parlava, sapeva che parlava per lei. Anche lui le guardava le labbra. Le fu permesso il gelato, ma non il caffè.
Sir Stephen invitò O e René a prendere il caffè a casa sua. Tutti e tre cenarono molto leggermente, e O si era resa conto che avevano badato a bere pochissimo, e a lasciarla bere ancor meno: mezzo litro di Chianti in tre. Avevano anche cenato molto in fretta: erano appena le nove. - Ho mandato via l'autista - disse Sir Stephen - mi faccia il favore di guidare lei, René; la cosa più semplice sarebbe di andare direttamente a casa mia. - René prese il volante, O si sedette accanto a lui, Sir Stephen a fianco di lei. La vettura era una grande Buick, c'era spazio sufficiente per tre persone sul sedile anteriore.

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