18 maggio 2018

da “La sirena” – Giuseppe Tomasi di Lampedusa

da “La sirena” – Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Nel tardo autunno di quell’anno 1938 mi trovavo in piena crisi di misantropia. Risiedevo a Torino e la “tota” n. 1, frugando nelle mie tasche alla ricerca di un qualche biglietto da cinquanta lire, aveva, mentre dormivo, scoperto anche una letterina della “tota” n. 2 che pur attraverso scorrettezze ortografiche non lasciava dubbi circa la natura delle nostre relazioni.
Il mio risveglio era stato immediato e burrascoso. L’alloggetto di via Peyron echeggiò di escandescenze vernacole; per cavarmi gli occhi venne fatto anche tentativo che potei mandare a vuoto soltanto storcendo un poco il polso sinistro della cara figliula. Quest’azione di difesa pienamente giustificata pose fine alla scenata ma anche all’idillio. La ragazza si rivestì in fretta, ficcò nella borsetta piumino, rossetto, fazzolettino, il biglietto da cinquanta “causa mali tanti”, mi scaraventò sul viso un triplice “pourcoun!” e se ne andò. Mai era stata così carina quanto in quel quarto d’ora di furia. Dalla finestra la vidi uscire e allontanarsi nella nebbiolina del mattino, alta, slanciata, adorna di riconquistata eleganza.
Non l’ho vista mai più come non più rivisto un “pullover” ci cashmere nero che mi era costatato un occhio e che aveva il funesto pregio di una foggia adatta tanto a maschi quanto a femmine. Essa lasciò soltanto, sul letto, due di quelle forcinette attorcigliate, dette “invisibili”.
Lo stesso pomeriggio avevo appuntamento con la n. 2 in una pasticceria di piazza Carlo Felice. Al tavolinetto rotondo nell’angolo ovest della seconda sala che era il “nostro” non vidi le chiome castane della fanciulla più che mai desiderata ma la faccia furbesca di Tonino, un suo fratello di dodici anni che aveva appena finito di inghiottire una cioccolata con doppia panna. Quando mi avvicinai si alzò con la consueta urbanità torinese. “Monsù,” mi disse, “la Pinotta non verrà; mi ha detto di darle questo biglietto. Cerea, monsù.” E uscì portando via due “brioches” rimaste nel piatto. Col cartoncino color avorio mi si notificava un congedo assoluto, motivato dalla mia infamia e “disonestà meridionale”. Era chiaro che la n. 1 aveva rintracciato e sobillato la n. 2 e che io ero rimasto seduto fra due sedie.
In dodici ore avevo perduto due ragazze utilmente complementari fra loro più un “pullover” al quale tenevo; avevo anche dovuto pagare le consumazioni dell’infernale Tonino. Il mio sicilianissimo amor proprio era umiliato: ero stato fatto fesso; e decisi di abbandonare per qualche tempo il mondo e le sue pompe.

Per questo periodo di ritiro non poteva trovarsi luogo più acconcio di quel caffè di via Po dove adesso, solo come un cane, mi recavo ad ogni momento libero e, sempre, la sera dopo il mio lavoro al giornale. era una specie di Ade popolato da esangui ombre di tenenti colonnelli, magistrati e professori in pensione. Queste vane apparenze giocavano a dama o a domino, immerse in una luce oscurata il giorno dai portici e dalle nuvole, la sera dagli enormi paralumi verdi dei lampadari; e non alzavano mai la voce timorosi com’erano che un suono troppo forte avrebbe fatto scomporsi la debole trama della loro apparenza. un adattissimo Limbo.
(…)

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