14 giugno 2017

Medusa – Sylvia Plath

Rubens - Medusa
Medusa – Sylvia Plath

Là da quel promontorio di sassi tappabocca
occhi-palla da bianche mazze giocati,
orecchi tesi alle incoerenze del mare,
tu alberghi la tua snervante attesa----globo oculare
di Dio, lente di compassioni,

e i tuoi accoliti fanno
lavorare le loro pazze cellule all'ombra
della mia chiglia, pulsanti come cuori,
rosse stigmate proprio al centro,
correndo il risucchio al più vicino punto di partenza,

tirando i loro capelli alla Gesù.
L'ho scampata? mi domando.
La mia mente volge a te
vecchio ombelico incrostato, cavo atlantico,
che si conserva, sembra, in un miracoloso buonostato.

Sei sempre là, in ogni caso,
tremulo fiato al limite della mia linea,
curva d'acqua sprizzante
alla mia verga di rabdomante, radiosa e grata,
che tocca e succhia.

Non t'ho chiamata.
Non ti ho chiamata proprio.
Eppure, eppure
via mare a me sei arrivata,
grassa e rossa, placenta

che paralizza i riottosi amanti.
Luce di cobra
che alle sanguigne campane della fucsia
spreme il fiato. Non potevo prender fiato,
morta e senza un quattrino,

sovraesposta, come un raggio X.
Chi credi mai di essere?
Ostia da comunione? Madonna addolorata?
Non prenderò un boccone del tuo corpo,
bottiglia nella quale

io vivo, Vaticano spettrale.
Questo sale bollente mi nausea da morire.
Verdi eunuchi, le tue brame
fischiano ai miei peccati.
Vade retro, anguilloso tentacolo!

Non c'è niente fra di noi.

Traduzione di Giovanni Giudici

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