da Cent’anni di solitudine – Gabriel Garcìa Màrquez
(…)
José Arcadio Buendìa ignorava completamente la geografia
della regione. Sapeva che verso oriente c'era la sierra impenetrabile e al di
là della sierra l'antica città di Riohacha , dove in epoche remote – come gli
aveva raccontato il primo Aureliano Buendìa, suo nonno – Sir Francis Drake si
dava allo sport di cacciare i caimani a cannonate; poi li faceva rammendare e
riempire di paglia per portarli alla regina Isabella. Nella sua gioventù, lui e
i suoi uomini, con donne e bambini e animali ed ogni sorta di utensili
domestici, avevano attraversato la sierra in cerca di uno sbocco sul mare, e
dopo ventisei mesi avevano abbandonato l'impresa e fondato Macondo per non
dover intraprendere il cammino di ritorno. Era, quindi, una via che non gli
interessava, perché poteva condurlo soltanto al passato. Verso sud c'erano i
pantani, coperti da una eterna crema vegetale, e il vasto universo della palude
grande, che secondo la testimonianza degli zingari non aveva confini. La palude
grande si confondeva a occidente con una distesa acquatica senza orizzonti,
dove c'erano cetacei dalla pelle delicata con testa e busto di donna, che
perdevano i naviganti con la malia delle loro teste madornali. Gli zingari
navigavano per sei mesi su quella rotta prima di raggiungere il nastro di
terraferma sul quale passavano le mule della posta.
In base ai calcoli di José Arcadio Buendìa, l'unica
possibilità di contatto con la civiltà era il cammino del nord. Perciò munì di
utensili per disboscare e di armi da caccia gli stessi uomini che lo avevano
accompagnato nella fondazione di Macondo: buttò in uno zaino i suoi strumenti di
orientamento e le sue mappe, e intraprese la temeraria avventura.
Durante i primi giorni non incontrarono seri ostacoli.
Scesero lungo la pietrosa sponda del fiume fino al luogo in cui anni prima
avevano trovato l'armatura del guerriero, e lì penetrarono nel bosco per un
sentiero di aranci silvestri. Alla fine della prima settimana, uccisero e
arrostirono un cervo, ma si accontentarono di mangiarne la metà e di salare il
resto per i prossimi giorni. Con questa precauzione cercavano di rimandare la
necessità di continuare a nutrirsi di pappagalli, la cui carne bluastra aveva
un aspro odore di muschio. Poi, per più di dieci giorni, non rividero il sole.
La terra diventò molle e umida, come cenere vulcanica, e la vegetazione fu
sempre più insidiosa e si fecero sempre più lontani i trilli degli uccelli e lo
schiamazzo delle scimmie, e il mondo diventò triste per sempre. Gli uomini
della spedizione si sentirono oppressi dai loro ricordi più antichi in quel
paradiso di umidità e di silenzio, anteriore al peccato originale, dove gli
stivali affondavano in pozze di oli fumanti e i machetes facevano a pezzi gigli
sanguinosi e salamandre dorate. Per una settimana, quasi senza parlare,
avanzarono come sonnambuli in un universo di afflizione, appena illuminati dal
tenue riverbero di insetti luminosi e coi polmoni oppressi da un soffocante
odore di sangue. Non potevano ritornare, perché il sentiero che andavano aprendo
al loro passaggio tornava a chiudersi in poco tempo, con una vegetazione nuova
che vedevano crescere quasi sotto i loro occhi. "Non importa," diceva
José Arcadio Buendìa. "L'essenziale
è non perdere l'orientamento." Affidandosi sempre
alla bussola, continuò a guidare i suoi uomini verso il nord invisibile, finché
pervennero ad uscire dalla regione incantata. Era una notte fonda, senza stelle,
ma l'oscurità era impregnata di un'aria nuova e pulita. Sfiniti per la lunga
traversata, appesero le amache e dormirono profondamente per la prima volta
dopo due settimane. Quando si svegliarono, già col sole alto, rimasero
stupefatti. Davanti a loro, circondato da felci e palme, bianco e polveroso
nella silenziosa luce del mattino, c'era un enorme galeone spagnolo. Leggermente
piegato a tribordo, dalla sua alberatura intatta pendevano i brandelli
squallidi della velatura, tra sartie adorne di orchidee. Lo scafo, coperto da
una nitida corazza di remora pietrificata e di musco tenero, era fermamente
inchiavardato in un pavimento di pietre. Tutta la struttura sembrava occupare
un ambito proprio, uno spazio di solitudine e di dimenticanza, vietato ai vizi del
tempo e alle abitudini degli uccelli. Nell'interno, che la spedizione esplorò
con un prudente fervore, non c'era altro che un fitto bosco di fiori.
Il ritrovamento del galeone, indizio della vicinanza del
mare, frantumò l'impeto di José Arcadio Buendìa. Riteneva una burla del suo
avverso destino l'aver cercato il mare senza trovarlo, a costo di sacrifici e
patimenti incalcolabili, e trovarlo adesso che non l'aveva cercato, messo lì
sulla loro strada come un ostacolo inevitabile. Molti anni dopo, il colonnello
Aureliano Buendìa percorse di nuovo la regione, quando era ormai un regolare
tragitto di posta, e l'unica cosa che trovò della nave fu l'ossatura
carbonizzata in mezzo a un prato di papaveri. Finalmente convinto che quella
storia non era stata un prodotto dell'immaginazione di suo padre, si chiese
come mai quel galeone avesse potuto addentrarsi fino a quel punto in
terraferma. Ma José Arcadio Buendìa non si prospettò quella preoccupazione
quando trovò il mare, al termine di altri quattro giorni di viaggio, a dodici
chilometri di distanza dal galeone. I suoi sogni terminarono davanti a quel
mare color cenere, schiumoso e sudicio, che non meritava i rischi e i sacrifici
della sua avventura.
"Diamine!" gridò. "Macondo è circondata
dall'acqua da ogni parte."
(…)
Nessun commento:
Posta un commento