13 luglio 2017

da “La nausea” – Jean Paul Sartre

opera di Maurits Cornelis Escher 
da “La nausea” – Jean Paul Sartre
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Nera? Ho sentito la parola sgonfiarsi, svuotarsi del suo senso con una rapidità  straordinaria. Nera? La radice non era nera. Non c’era del nero su quel pezzo di legno c’era... un’altra cosa: il nero, come il cerchio, non esisteva. Guardavo la radice: era più che nera o quasi nera? Ma ben presto ho smesso d’interrogarmi poiché ho avuto l’impressione di trovarmi in una zona che conoscevo. Sì, avevo già scrutato, con quella stessa inquietudine, innumerevoli oggetti, avevo già cercato - vanamente - di pensare qualcosa su di essi: ed avevo già sentito le loro qualità, fredde e inerti, sottrarsi e scivolarmi di tra le dita. Le bretelle d’Adolfo, l’altra sera, al «Ritrovo dei ferrovieri», non erano viola. Ho riveduto le due macchie  indefinibili sulla camicia. E il ciottolo, quel famoso ciottolo, l’origine di tutta questa storia: non era… non mi son ricordato bene, esattamente, ciò che si era rifiutato di essere, ma non avevo dimenticato la sua resistenza passiva. E la mano dell’Autodidatta; l’avevo presa e stretta, un giorno, in biblioteca,e poi avevo
Avuto l’impressione che non fosse proprio una mano. Avevo pensato ad un grosso verme bianco, ma non era neanche questo. E poi quella losca trasparenza del bicchiere  di birra al caffè Mably. Loschi, ecco che cosa erano, i suoni, i profumi, i sapori. Quando vi passavano rapidamente sotto il naso come lepri stanate, e non vi si  faceva troppa attenzione, si poteva crederli del tutto semplici e rassicuranti, si poteva credere che al mondo ci fosse del vero azzurro, del vero rosso, del vero  odore di mandorla o di violetta. Ma non appena uno li tratteneva un istante, questo senso di conforto, di sicurezza, cedeva il posto ad un profondo disagio: i colori, i sapori, gli odori, non erano mai veri, mai del  tutto schiettamente se stessi  e null’altro che se stessi. La qualità più semplice, la più indecomponibile aveva del di più, in se stessa, in rapporto a se stessa, nel suo stesso seno. Quel nero, lì, contro il mio piede, non aveva l’aria d’essere del nero, ma piuttosto lo sforzo confuso per immaginare del nero di qualcuno che non ne aveva mai visto, che  non aveva saputo fermarsi, ed aveva immaginato un essere ambiguo, al di là dei  colori. Rassomigliava a un colore, ma pure... ad una lividura, o, ancora, ad una secrezione, ad una essudazione - e ad altro, a un odore, per esempio, si fondeva in un odore di terra bagnata, di legno tiepido e bagnato, in odore nero steso come  una vernice su quel legno nervato, in sapore dì fibra masticata, zuccherina. Non lo vedevo semplicemente, questo nero: la vista è un’invenzione astratta, un’idea  ripulita, semplificata, una idea d’uomo. Quel nero lì, presenza amorfa e fiacca, oltrepassava di gran lunga la vista, l’odorato e il gusto. Ma questa dovizia finiva per diventare confusione, e, infine, non era più niente perché era troppo.
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