11 luglio 2017

da Elena – Ghiannis Ritsos

foto da flickr
da Elena – Ghiannis Ritsos

(…)
Non andartene. Rimani ancora un po’. È tanto tempo che non parlo.
Non viene più nessuno a trovarmi. Hanno avuto tutti fretta di andarsene.
Gliel’ho letto negli occhi – avevano tutti fretta che morissi. Il tempo non scorre.
Le ancelle mi odiano. Di notte sento che mi aprono i cassetti,
mi portano via le trine, i gioielli, i talenti d’oro; – chissà
se mi avranno lasciato un abito decente per qualche circostanza
e qualche paio di scarpe. Le chiavi me le hanno prese anche quelle
da sotto il cuscino; – non mi sono mossa; ho finto di dormire –
un giorno o l’altro le avrebbero prese comunque; – che almeno non sappiano che so.

Che sarebbe di me senza di loro? “Pazienza, pazienza”, mi dico;
“pazienza”, – e anche questo è come un’infima vittoria, mentre
loro leggono le vecchie lettere dei miei ammiratori
o le poesie dedicatemi da grandi poeti; – le leggono
con un’enfasi ridicola e con molti errori di pronuncia, di metrica, di accento
e di scansione; – non le correggo. Fingo di non sentirle. Altre volte
con la mia matita nera per gli occhi disegnano grossi baffi
sulle mie statue, o gli mettono in testa un vecchissimo elmo
o il vaso da notte. Le guardo tranquilla. Questo le manda in bestia.

Un giorno che stavo un po’ meglio, le pregai di nuovo
di truccarmi il viso. Me lo truccarono. Chiesi uno specchio.
Me l’avevano dipinto di verde, con la bocca nera. “Grazie”, dissi loro,
come se non avessi notato nulla di strano. Ridevano. Una di loro
si spogliò completamente davanti a me, indossò i miei pepli dorati, e così,
coi grossi piedi nudi, cominciò a ballare,
saltò sul tavolo – sfrenata; ballava, ballava, si inchinava
tentando di imitare i miei movimenti di un tempo. In alto sulla coscia
aveva il segno di un morso inferto da denti forti e regolari, d’uomo.

Io le guardavo come fossi a teatro; – senz’alcuna umiliazione o tristezza
o indignazione – e per che cosa poi? – Ripetevo solo in fondo a me stessa:
 “Un giorno morremo”, o piuttosto: “Un giorno morrete”;
ed era una vendetta certa, e un timore, una consolazione. Fissavo
ogni cosa con una chiarezza indicibile, imperturbabile, come
se i miei occhi non dipendessero più da me; guardavo i miei stessi occhi
distanti un metro dal mio viso, come i vetri
di una finestra lontana dietro la quale qualcun altro
osserva ciò che avviene in una strada ignota
con caffè chiusi, vetrine di fotografi e profumerie,
e avevo la sensazione che una bella boccetta di cristallo
si fosse rotta, e il profumo si fosse versato sulla vetrina polverosa. I passanti
indugiavano vagamente annusando l’aria, ricordando qualcosa di buono
e poi sparivano dietro gli alberi del pepe o in fondo alla via.

In certi momenti lo sento ancora quel profumo – ovvero lo ricordo;
non è strano? – Gli eventi che di solito definiamo grandi si dissolvono, si estinguono –
l’assassinio di Agamennone, l’uccisione di Clitennestra (mi avevano inviato
da Micene una sua bella collana, fatta
di piccole maschere d’oro, congiunte con anelli
in alto sulle orecchie – non l’ho mai messa). Si dimenticano;
restano altre cose, accessorie, insignificanti; – ricordo che un giorno vidi
un uccello posato sulla groppa di un cavallo; e questo fatto inspiegabile
pareva spiegare (in particolare a me) qualche mistero.
(…)

da Elena - Traduzione di Nicola Crocetti - Quarta dimensione

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