foto di NikiFeijen - da trendland.com
da Elena – Ghiannis Ritsos
(…)
Ora puoi
andare. Si è fatta notte. Ho sonno – poter chiudere gli occhi,
dormire, non
vedere né fuori né dentro, dimenticare
la paura del
sonno e quella del risveglio. Non ce la faccio. Trasalisco –
ho paura di
non svegliarmi più. Rimango insonne ad ascoltare
le ancelle
che russano nel salone, i ragni sui muri,
gli
scarafaggi in cucina, o i morti che respirano
sbuffando
profondamente, quasi dormissero davvero, quasi si fossero acquietati.
Perdo
perfino i miei morti adesso. Li ho perduti. Andati.
Certe volte,
a mezzanotte passata, si ode giù in strada
il rumore
ritmato degli zoccoli dei cavalli di una carrozza attardata, che sembra far
ritorno
dalla
rappresentazione funebre in un teatro pericolante di quartiere
con gli
stucchi del soffitto staccati, coi muri scalcinati,
con un
immenso sipario calato, rosso stinto,
ristretto
dai troppi lavaggi – e dallo spazio in fondo
si
intravedono i piedi scalzi del grande attrezzista o dell’elettricista
che forse
arrotola un bosco di carta prima di spegnere le luci.
Quello
spazio resta ancora illuminato, mentre giù in platea
lampadari e
applausi sono spenti da tempo. Nell’aria
aleggia
pesante il respiro del silenzio, e il ronzio del silenzio
sotto le
sedie vuote, con bucce dei semi di girasole e biglietti sgualciti,
con qualche
bottone, un fazzoletto con le trine, un pezzo di spago rosso.
… E quella
scena, sulle mura di Troia – che fossi davvero ascesa al cielo
lasciandomi
cadere dalla bocca…? – A volte mi avviene ancora di provare,
distesa qui
sul letto, ad aprire le braccia, ad alzarmi
in punta di
piedi − a poggiare i piedi in aria – il terzo fiore –
(Tacque. Reclinò il capo
all’indietro. Forse si era addormentata. L’altro si alzò. Non disse buonanotte.
Era già buio ormai. Uscendo nel corridoio si accorse che le ancelle, incollate
al muro, stavano origliando. Non fecero una piega. Scese la scala interna come
se scendesse in un pozzo profondo, con la sensazione che non avrebbe trovato la
porta per uscire – non c’era alcuna porta. Le dita contratte cercavano già la
maniglia. Immaginò anzi che le sue mani fossero due uccelli boccheggianti per
la mancanza d’aria, mentre allo stesso tempo sapeva che questa immagine non era
se non l’espressione di autocommiserazione che di
solito opponiamo a un timore indefinito. A un tratto si udirono voci di sopra.
Si accesero le luci sulla scala, nel corridoio, nelle stanze. Salì di nuovo. Ora
non aveva più dubbi. La donna era seduta sul letto, il gomito appoggiato sul
tavolino di zinco e la guancia sulla palma della mano. Le domestiche entravano,
uscivano, facevano rumore. Qualcuno telefonava in corridoio. Sopraggiunsero le vicine.
“Ah, ah”, facevano, e nascondevano qualcosa sotto le vesti. Di nuovo il
telefono. Erano già arrivati i gendarmi. Mandarono via le ancelle e le vicine.
Quelle fecero in tempo ad arraffare le gabbie coi canarini, alcuni vasi di
piante esotiche, una radiolina a transistor, una stufetta elettrica. Una teneva
un grande quadro d’oro. Adagiarono la defunta su una barella. L’ufficiale
appose i sigilli alla casa – “finché si trovino gli eredi”, disse, – ben
sapendo che non esistevano eredi. La casa sarebbe rimasta coi sigilli quaranta
giorni, dopodiché i suoi beni – quelli scampati – sarebbero stati venduti
all’asta per conto dello Stato. “All’obitorio”, disse all’autista.
La vettura coperta si
allontanò. Di colpo scomparve ogni cosa. Silenzio assoluto. Soltanto lui. Si
voltò a guardare. Era sorta la luna. Le statue del giardino illuminate
fiocamente – le statue di lei, solitarie, accanto agli alberi, fuori della casa
coi sigilli. E una luna tranquilla, ingannatrice. Dove sarebbe andato adesso?)
Traduzione
di Nicola Crocetti - Quarta dimensione
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