11 luglio 2017

da Elena – Ghiannis Ritsos

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da Elena – Ghiannis Ritsos

(…)
Ricordo ancora, bambina, sulle rive dell’Eurota, accanto ai tiepidi oleandri,
il rumore di un albero che si scortecciava da solo; le scorze
cadevano mollemente nell’acqua, navigavano come triremi, si allontanavano,
e io aspettavo con insistenza che una farfalla nera striata d’arancione
si posasse su una corteccia, e si stupisse nel vedersi muovere pur stando ferma,
e mi divertiva il fatto che le farfalle, così esperte dell’aria,
non avessero la minima idea di viaggi sull’acqua e di remigazioni. E una farfalla venne per davvero.

Vi sono istanti strani, solitari, burleschi quasi. Un uomo
cammina a mezzogiorno portando un paniere in testa; il paniere
gli nasconde tutto il viso come fosse acefalo o mascherato,
con una mostruosa testa senza occhi, con innumerevoli occhi. Un altro,
mentre passeggia fantasticando all’imbrunire, inciampa in qualcosa, bestemmia,
si volta indietro, cerca; – una pietruzza; la solleva; la bacia; allora
si ricorda di guardarsi attorno; si allontana con un senso di colpa. Una donna
infila la mano in tasca; non trova niente; estrae la mano,
la solleva, la osserva attentamente, quasi velata dalla polvere del vuoto.

Un cameriere ha imprigionato una mosca nel pugno – non la stringe;
un cliente lo chiama; se ne dimentica; disserra il pugno; la mosca
vola in alto, si posa sul bicchiere. Un pezzo di carta rotola per strada
esitando, con molte pause, senza attirare
l’attenzione di alcuno − e questo gli piace. Ma di nuovo, ogni tanto,
emette un fruscìo particolare, che lo smentisce; quasi cercasse adesso
qualche testimone incorruttibile alla sua marcia modesta, segreta. E tutte queste cose
hanno una bellezza desolata, inspiegabile e una profondissima pena
originate da gesti nostri, estranei e sconosciuti – non è vero?

Quanto alle altre cose, è come se non fossero esistite – scomparse. Argo, Atene, Sparta,
Corinto, Tebe, Sicione – ombre di nomi; li pronuncio; suonano come sprofondati
nell’incompiuto. Un cane smarrito, gentile, se ne sta
davanti alla vetrina di una misera latteria. Una giovane passante lo guarda;
quello non risponde; la sua ombra si stende sul marciapiede, immensa.
Non ho mai saputo il perché. E credo che neanche esista. Resta soltanto
questa approvazione avvilente, imposta (ma da chi?)
come quando accenniamo di “sì” con la testa, quasi salutassimo qualcuno
con incredibile servilismo, mentre invece non passa e non c’è nessuno.

È come se qualcun altro mi avesse raccontato, con voce affatto incolore, una sera,
gli avvenimenti della mia vita, mentre morivo dal sonno; dentro di me speravo
che si fermasse alfine, per poter chiudere gli occhi,
dormire. E mentre parlava, giusto per fare qualcosa, per resistere al sonno,
contavo a una a una le frange del mio scialle, ritmando il conto
su una cantilena sciocca e infantile della moscacieca, fin tanto che
la ripetizione non la privava di ogni senso. Ma il suono non si perde –
frastuoni, tonfi, strascichii – il rumore del silenzio, un pianto scompagnato,
qualcuno gratta il muro con le unghie, un paio di forbici cadono sull’assito,
qualcuno tossisce; – la mano davanti alla bocca, per non svegliare un altro
che dorme con lui – forse la sua morte; – smette; poi di nuovo
quel rumore che sale a spirale da un pozzo vuoto, chiuso.
(…)

da Elena - Traduzione di Nicola Crocetti - Quarta dimensione

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