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da Elena – Ghiannis Ritsos
(…)
Ricordo
ancora, bambina, sulle rive dell’Eurota, accanto ai tiepidi oleandri,
il rumore di
un albero che si scortecciava da solo; le scorze
cadevano
mollemente nell’acqua, navigavano come triremi, si allontanavano,
e io
aspettavo con insistenza che una farfalla nera striata d’arancione
si posasse
su una corteccia, e si stupisse nel vedersi muovere pur stando ferma,
e mi
divertiva il fatto che le farfalle, così esperte dell’aria,
non avessero
la minima idea di viaggi sull’acqua e di remigazioni. E una farfalla venne per
davvero.
Vi sono
istanti strani, solitari, burleschi quasi. Un uomo
cammina a
mezzogiorno portando un paniere in testa; il paniere
gli nasconde
tutto il viso come fosse acefalo o mascherato,
con una
mostruosa testa senza occhi, con innumerevoli occhi. Un altro,
mentre
passeggia fantasticando all’imbrunire, inciampa in qualcosa, bestemmia,
si volta
indietro, cerca; – una pietruzza; la solleva; la bacia; allora
si ricorda
di guardarsi attorno; si allontana con un senso di colpa. Una donna
infila la
mano in tasca; non trova niente; estrae la mano,
la solleva,
la osserva attentamente, quasi velata dalla polvere del vuoto.
Un cameriere
ha imprigionato una mosca nel pugno – non la stringe;
un cliente
lo chiama; se ne dimentica; disserra il pugno; la mosca
vola in
alto, si posa sul bicchiere. Un pezzo di carta rotola per strada
esitando,
con molte pause, senza attirare
l’attenzione
di alcuno − e questo gli piace. Ma di nuovo, ogni tanto,
emette un
fruscìo particolare, che lo smentisce; quasi cercasse adesso
qualche
testimone incorruttibile alla sua marcia modesta, segreta. E tutte queste cose
hanno una
bellezza desolata, inspiegabile e una profondissima pena
originate da
gesti nostri, estranei e sconosciuti – non è vero?
Quanto alle
altre cose, è come se non fossero esistite – scomparse. Argo, Atene, Sparta,
Corinto,
Tebe, Sicione – ombre di nomi; li pronuncio; suonano come sprofondati
nell’incompiuto.
Un cane smarrito, gentile, se ne sta
davanti alla
vetrina di una misera latteria. Una giovane passante lo guarda;
quello non
risponde; la sua ombra si stende sul marciapiede, immensa.
Non ho mai
saputo il perché. E credo che neanche esista. Resta soltanto
questa
approvazione avvilente, imposta (ma da chi?)
come quando
accenniamo di “sì” con la testa, quasi salutassimo qualcuno
con
incredibile servilismo, mentre invece non passa e non c’è nessuno.
È come se
qualcun altro mi avesse raccontato, con voce affatto incolore, una sera,
gli
avvenimenti della mia vita, mentre morivo dal sonno; dentro di me speravo
che si
fermasse alfine, per poter chiudere gli occhi,
dormire. E
mentre parlava, giusto per fare qualcosa, per resistere al sonno,
contavo a
una a una le frange del mio scialle, ritmando il conto
su una
cantilena sciocca e infantile della moscacieca, fin tanto che
la
ripetizione non la privava di ogni senso. Ma il suono non si perde –
frastuoni,
tonfi, strascichii – il rumore del silenzio, un pianto scompagnato,
qualcuno
gratta il muro con le unghie, un paio di forbici cadono sull’assito,
qualcuno
tossisce; – la mano davanti alla bocca, per non svegliare un altro
che dorme
con lui – forse la sua morte; – smette; poi di nuovo
quel rumore
che sale a spirale da un pozzo vuoto, chiuso.
(…)
da Elena -
Traduzione di Nicola Crocetti - Quarta dimensione
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