13 luglio 2017

da “La nausea” – Jean Paul Sartre


 Maurits Cornelis Escher - Farfalle
da “La nausea” – Jean Paul Sartre
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Mi astenevo dal fare il minimo movimento ma non avevo bisogno di muovermi  per vedere, dietro gli alberi, le colonne azzurre e il lampadario del chiosco della musica, e la Velleda in mezzo ad un gruppo di allori. Tutti questi oggetti… come  dire? M’infastidivano: avrei desiderato che esistessero in maniera meno forte, in un modo più secco, più astratto, con più ritegno. Il castagno mi si premeva contro gli occhi. Una ruggine verde lo copriva sino a mezz’altezza; la corteccia nera e rigonfia sembrava dì cuoio bollito. Il tenue rumore d’acqua della fontana Masqueret mi scorreva dentro le orecchie e vi si faceva un nido, le riempiva di sospiri; le mie narici traboccavano d’un odore verde e putrido. Ogni cosa si lasciava andare all’esistenza, dolcemente, teneramente, come quelle donne stanche che s’abbandonano al riso e dicono: «Ridere fa bene» con voce molle; le cose si stendevano l’una dì fronte all’altra facendosi l’abbietta confidenza della propria esistenza. Compresi che non c’era via di mezzo tra l’inesistenza e questa  sdilinquita abbondanza. Se si esisteva, bisognava esistere fin lì, fino alla muffa, al rigonfiamento, all’oscenità. In un altro mondo, i circoli, le arie musicali conservano le loro linee pure e rigide. Ma l’esistenza è un cedimento. Degli alberi, dei pilastri blu-notte, il rantolo felice d’una fontana, degli odori acuti, dei piccoli cirri di calore che fluttuavano nell’aria fredda, un uomo rosso che faceva il chilo su una panchina: tutte queste sonnolenze, tutte queste digestioni prese insieme  offrivano un aspetto vagamente comico. Comico...no: non arrivava a tanto, niente di ciò che esiste può essere comico; era come un’analogia fluttuante, quasi inafferrabile, con certe situazioni da operetta. Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d’esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto, sì sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: età il solo rapporto ch’io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di
contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di  rinchiuderli, s’isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m’ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l’arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose, Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po’ a sinistra. Di troppo la Velleda…
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