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da Elena – Ghiannis Ritsos
(…)
Non vuoi che
suoni il campanello perché ti portino qualcosa? – Un po’ di visciolata
o di
melangoli canditi – dev’essere rimasto qualcosa nei grandi vasi
incrostato
di zucchero, rappreso – naturalmente se l’hanno risparmiato
quelle
ingorde delle ancelle. In questi ultimi anni mi dedicavo da sola
a fare
confetture – che cos’altro fare?
Dopo Troia – la nostra vita a Sparta
era così
noiosa – l’autentica provincia: chiusi tutto il giorno in casa,
tra i
bottini ammassati di tante guerre; e i ricordi,
sbiaditi e
importuni, che ti si trascinano dietro, nello specchio
quando ti
pettini i capelli o, in cucina, provenienti
dai vapori
grassi della pentola; e nel gorgoglio dell’acqua che bolle risentire
certi
esametri dattilici del Terzo Canto
mentre dal
pollaio del vicino s’ode il canto sconnesso di un gallo.
La conosci
bene la monotonia della nostra vita. Perfino i giornali
simili nel
formato, nello spessore, nei titoli – non li leggo nemmeno più. Di tanto in
tanto
bandiere sui
balconi, feste nazionali, parate militari,
come
caricate a molla; – soltanto la cavalleria conservava qualcosa d’improvvisato,
di personale
– forse grazie ai cavalli. Sollevavano nuvole di polvere;
chiudevamo
le finestre; – dover poi stare a spolverare uno per uno
vasi,
scatolette, cornici, statuette di porcellana, specchi, buffè.
Non andavo
più alle cerimonie. Mio marito tornava in un bagno di sudore,
si gettava
sul cibo schioccando le labbra, e insieme rimuginando
antiche
glorie uggiose e rancori sopiti. Io osservavo
i bottoni
del suo gilè sul punto di staccarsi – era ingrassato molto.
Una grande
macchia livida gli balenava sotto il mento.
Allora mi
afferravo il mento, continuando a mangiare distrattamente,
avvertendo
nella mano i movimenti della mascella
come fosse
staccata dalla testa e la reggessi nuda in mano.
Forse perciò
sono ingrassata anch’io. Non so. Tutti parevano spaventati –
li vedevo
ogni tanto dietro i vetri; – camminavano di traverso
come se
zoppicassero, come se nascondessero qualcosa sotto il braccio. Il pomeriggio
suonavano a
morto le campane. I mendicanti bussavano alle porte. Giù in fondo
la facciata
di calce della Maternità, all’imbrunire, sembrava ancora più bianca,
più lontana
e incomprensibile. Accendevamo presto le lampade. Aggiustavo
qualche mio
vecchio abito. Poi si guastò anche la macchina per cucire; la trasportarono
giù in
cantina assieme a quelle vecchie romantiche pitture a olio
con scene
mitologiche banali – Anadiomeni, Aquile e Ganimedi.
(…)
da Elena -
Traduzione di Nicola Crocetti - Quarta dimensione
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