Da I quarantanove
racconti, 1938
In autunno c'era ancora la guerra, ma
noi non ci andavamo più. Faceva freddo in autunno, a Milano, e il buio calava
molto presto. Allora si accendevano le luci elettriche, ed era divertente
camminare per le strade guardando le vetrine.
C'era molta selvaggina appesa davanti
ai negozi, e la neve spolverava la pelliccia delle volpi e il vento ne gonfiava
la coda. I cervi penzolavano rigidi e vuoti e pesanti, e gli uccellini si
gonfiavano al vento e il vento ne scompigliava le piume. Era un autunno freddo,
il vento veniva giù dalle montagne.
Ogni pomeriggio andavamo tutti
all'ospedale, e c'erano vari modi di arrivarci, nel crepuscolo, attraverso la
città. Due di questi modi erano seguendo i canali, ma la strada era lunga.
Sempre, però, per entrare nell'ospedale, si attraversava un ponte su un canale.
Si poteva scegliere fra tre ponti. Su uno di essi una donna vendeva
caldarroste. Si stava al calduccio, davanti al fuoco della sua carbonella, e
dopo le castagne erano calde nella tua tasca. L'ospedale era molto vecchio e
molto bello, e si entrava da un cancello, si attraversava un cortile e si
usciva da un cancello dalla parte opposta. Di solito c'erano dei funerali che partivano
dal cortile. Oltre il vecchio ospedale c'erano i nuovi padiglioni in muratura,
e là c'incontravamo ogni pomeriggio, eravamo tutti molto gentili e molto
interessati a quello che affliggeva tizio o caio, e stavamo seduti nelle
macchine che dovevano cambiare ogni cosa, o quasi.
Il dottore si avvicinò alla macchina
dove stavo seduto io e disse: - Cosa le piaceva fare di più, prima della
guerra? Praticava uno sport?
Dissi: - Si, il football.
- Bene, - disse lui. - Potrà tornare a
giocare a football meglio che mai.
Il mio ginocchio non si piegava e la
gamba pendeva irrigidita dal ginocchio alla caviglia, senza polpaccio, e la
macchina doveva piegare il ginocchio e farlo muovere come se andassi in
bicicletta. Ancora non si piegava, però, e quando veniva il momento di
piegarlo, era la macchina, invece, a incepparsi. Il dottore disse: - Tutto
questo passerà. Lei è un giovanotto fortunato. Tornerà a giocare a football
come un campione.
Nella macchina vicina c'era un
maggiore che aveva una mano piccola come quella di un bambino. Mi strizzò
l'occhio quando il dottore gli visitò la mano, che era tra due cinghie di cuoio
che saltavano su e giù e facevano muovere le dita irrigidite, e disse: - E
giocherò anch'io a football, capitano medico? - Era stato un grandissimo schermitore,
e prima della guerra il più grande schermitore italiano.
Il dottore andò nel suo ufficio, in
una stanza in fondo alla sala, e ci portò una fotografia che mostrava una mano
che, prima della cura, era piccola quasi come quella del maggiore, e che dopo
era un po' più grande. Il maggiore tenne la fotografia con la mano buona e la
studiò molto attentamente.
- Una ferita? - chiese.
- Un infortunio sul lavoro, - disse il
dottore.
- Molto interessante, molto
interessante, - disse il maggiore, e la restituì al dottore.
- Ha fiducia?
- No, - disse il maggiore.
C'erano tre ragazzi che venivano ogni
giorno e avevano circa la mia età. Erano di Milano, tutt'e tre, e uno doveva
fare l'avvocato, uno il pittore, e uno avrebbe voluto fare la carriera militare,
e quando avevamo finito con le macchine a volte tornavamo insieme al Caffè
Cova, che era vicino alla Scala. Poiché eravamo in quattro, prendevamo la via
più breve attraverso il quartiere comunista perché eravamo in quattro. La gente
ci odiava perché eravamo ufficiali, e da un'osteria, mentre passavamo, qualcuno
gridava: - Abbasso gli ufficiali! - Un altro ragazzo che qualche volta veniva
con noi, portando così a cinque il numero dei componenti la comitiva, aveva
sulla faccia un fazzoletto di seta nera perché allora era senza naso e dovevano
rifargli il viso. Era andato al fronte direttamente dall'accademia militare e
lo avevano ferito meno di un'ora dopo il suo arrivo in prima linea. Gli
ricostruirono la faccia, ma lui veniva da un'antichissima famiglia e così non
riuscivano mai a fargli il naso giusto. Poi andò in Sudamerica a lavorare in
una banca. Ma quello di cui racconto accadde tanto tempo fa, e allora non
sapevamo, nessuno di noi lo sapeva, come sarebbero andate, dopo, le cose.
Allora sapevamo soltanto che c'era ancora la guerra, ma che noi non ci saremmo
più andati.
Avevamo tutti le stesse medaglie,
tranne il ragazzo con la benda di seta nera sul viso, lui non era stato al
fronte abbastanza tempo per guadagnarsi una medaglia. Il ragazzo alto dalla faccia
pallidissima che doveva fare l'avvocato era stato tenente degli arditi e aveva
tre medaglie del tipo di cui noi ne avevamo una sola. Per molto tempo era
vissuto fianco a fianco alla morte e aveva un'aria piuttosto distaccata.
Avevamo tutti un'aria piuttosto distaccata, e non c'era nulla che ci unisse
tranne il fatto che ogni pomeriggio c'incontravamo all'ospedale. Anche se,
mentre andavamo al Cova attraverso la parte meno raccomandabile della città,
camminando nel buio, con luci e canti che uscivano dalle osterie, e dovendo
certe volte imboccare una strada dove gli uomini e le donne si affollavano sul
marciapiede, cosa che ci costringeva a urtarli per passare, ci sentivamo uniti
dal fatto che era successo qualcosa che loro, le persone che ci avevano in uggia,
non potevano capire.
Quanto a noi, capivamo bene il Cova,
che era comodo e caldo e non troppo vivamente illuminato, e rumoroso e pieno di
fumo a certe ore, e c'erano sempre ragazze ai tavoli e giornali illustrati su
una rastrelliera appesa al muro. Le ragazze del Cova erano molto patriottiche,
e io scoprii che in Italia le persone più patriottiche erano le ragazze dei
caffè, e credo che lo siano ancora.
All'inizio i ragazzi furono assai
gentili, s'interessarono alle mie medaglie e mi chiesero cos'avevo fatto per
guadagnarmele. Mostrai loro i documenti, che erano scritti in uno stile
bellissimo e pieno di fratellanza e abnegazione, ma che in realtà dicevano,
tolti tutti i fronzoli, che mi avevano assegnato le medaglie perché ero
americano. Dopodiché il loro atteggiamento verso di me cambia un tantino, anche
se, di fronte agli estranei, ero sempre un amico. Ero un amico, ma non più
veramente uno di loro, quand'ebbero letto le citazioni, perché per loro era
stato diverso, per guadagnarsi le medaglie, avevano fatto cose ben diverse. Io
ero stato ferito, questo è vero; ma tutti sapevamo che essere feriti, dopo
tutto, dipendeva solo dal caso. Non mi vergognai mai dei nastrini, però, e
qualche volta, dopo l'ora del cocktail, immaginavo di aver fatto, per guadagnarmi
le medaglie, tutte le cose che avevano fatto loro; ma la sera, tornando a casa
per le strade vuote col vento freddo e tutti i negozi chiusi, cercando di
tenermi vicino ai lampioni, sapevo che quelle cose non le avrei fatte mai, e
avevo una gran paura di morire, e spesso stavo a letto, di notte, tutto solo,
chiedendomi come mi sarei comportato quando fossi tornato al fronte.
I tre con le medaglie erano come
falchi cacciatori; e io non ero un falco, anche se un falco potevo sembrare a
coloro che non avevano mai cacciato; loro, i tre, la sapevano più lunga, e per
questo le nostre vie si separarono. Ma rimasi buon amico del ragazzo che era
stato ferito il suo primo giorno al fronte, perché ora non avrebbe mai saputo
come si sarebbe comportato; così neanche lui poteva essere accettato, e mi
piaceva perché pensavo che forse neanche lui sarebbe diventato un vero falco.
II maggiore, che era stato un grande
schermitore, non credeva nel coraggio, e quando stavamo seduti nelle macchine
passava molto tempo a correggermi gli errori di grammatica. Mi aveva fatto i
complimenti per come parlavo l'italiano, e insieme conversavamo con molta
disinvoltura. Un giorno avevo detto che l'italiano mi sembrava così facile che
non riuscivo a provare un particolare interesse per questa lingua: tutto era
così semplice da dire... - Ah, si, - disse il maggiore. - Perché, allora, non
comincia a studiare la grammatica? - Cominciammo dunque a studiare la
grammatica, e subito l'italiano diventò così difficile che non ebbi più il
coraggio di rivolgergli la parola finché non ebbi la grammatica sulla punta
delle dita.
Il maggiore veniva all'ospedale con
molta regolarità. Penso che non avesse saltato un giorno, anche se sono certo
che non credeva nelle macchine. Ci fu un periodo in cui nessuno dei due credeva
nelle macchine, e un giorno il maggiore disse che erano tutte sciocchezze.
Allora le macchine erano nuove ed eravamo noi che dovevamo provarle. Era
un'idea idiota, disse lui, una teoria come un'altra. Io non avevo imparato la
grammatica, e lui disse che ero uno stupido, una persona impossibile, e che mi
dovevo vergognare, e che lui era stato uno sciocco a disturbarsi per me. Era un
uomo piccino, sedeva impettito sulla seggiola con la destra ficcata nella
macchina e guardava il muro, diritto davanti a sé, mentre le cinghie andavano
rumorosamente su e giù facendogli muovere le dita.
- Che farà quando la guerra finirà, se finirà? - mi chiese. - Attento alla grammatica!
Andrò negli Stati Uniti.
- Che farà quando la guerra finirà, se finirà? - mi chiese. - Attento alla grammatica!
Andrò negli Stati Uniti.
E’ sposato ?
- No, ma spero di sposarmi.
- Tanto peggio per lei, - disse.
Pareva arrabbiatissimo. - Un uomo non deve sposarsi.
- Perché, signor maggiore ?
- Non mi chiami «signor maggiore».
- Perché un uomo non deve sposarsi?
- Non può sposarsi. Non può sposarsi,
- disse rabbiosamente. - Se non vuol perdere tutto, non dovrebbe mettersi nella
condizione di perderlo. Non dovrebbe mettersi nella condizione di perdere.
Dovrebbe trovare delle cose che non si possono perdere.
Parlava rabbiosamente e con grande
asprezza, e parlando teneva lo sguardo fisso davanti a sé.
- Ma perché dovrebbe necessariamente
perderlo?
- Lo perderà, - disse il maggiore.
Stava guardando il muro. Poi abbassò gli occhi alla macchina e strappò via la
manina dalle cinghie e se la batté con forza sulla coscia.
- Lo perderà, - disse, quasi urlando.
- Non discuta con me! - Poi chiamò l'assistente che badava alle macchine. -
Venga a spegnere quest'ordigno maledetto.
Tornò nell'altra stanza per la cura
con la luce e il massaggio. Poi lo sentii chiedere al dottore se poteva usare
il suo telefono e chiuse la porta. Quando rientrò nella stanza, io ero seduto
in un'altra macchina. Lui indossava la mantella e aveva il berretto in testa,
venne dritto verso la mia macchina e mi mise una mano sulla spalla.
- Sono veramente desolato, - disse, e
con la mano buona mi diede un colpetto sulla spalla. - Non volevo essere
scortese. Mia moglie è appena morta. Deve perdonarmi.
- Oh... - dissi, sentendomi male per
lui. - Mi dispiace tanto.
Rimase là mordendosi il labbro
inferiore. - E’ molto difficile, - disse. - Non riesco a rassegnarmi.
Il suo sguardo mi attraversava e si perdeva alle mie spalle fuori dalla finestra. Poi il maggiore si mise a piangere. - Sono assolutamente incapace di rassegnarmi, - disse con voce strozzata, e poi, piangendo, a testa alta, con lo sguardo vuoto, con un'andatura rigida e marziale, con le guance rigate di lacrime e mordendosi le labbra, passò davanti alle macchine e uscì dalla porta.
Il suo sguardo mi attraversava e si perdeva alle mie spalle fuori dalla finestra. Poi il maggiore si mise a piangere. - Sono assolutamente incapace di rassegnarmi, - disse con voce strozzata, e poi, piangendo, a testa alta, con lo sguardo vuoto, con un'andatura rigida e marziale, con le guance rigate di lacrime e mordendosi le labbra, passò davanti alle macchine e uscì dalla porta.
Il dottore mi disse che la moglie del
maggiore, che era giovanissima e che lui aveva sposato soltanto dopo essere
stato esentato dal servizio per invalidità, era morta di polmonite. Si era
ammalata solo qualche giorno prima. Nessuno si aspettava che morisse.
Il maggiore non venne all'ospedale per
tre giorni. Poi arrivò alla solita ora, portava una benda nera sulla manica
dell'uniforme. Quando tornò, appese al muro c'erano delle grandi. fotografie in
cornice di lesioni di ogni genere, prima e dopo la cura con le macchine.
Davanti alla macchina usata dal maggiore c'erano tre fotografie di mani come la
sua che erano completamente guarite. Non so dove il dottore fosse andato a
pescarle. Da quello che avevo sempre sentito dire, noi eravamo i primi a usare
quelle macchine. Le fotografie non contarono granché per il maggiore, che ora
si limitava a guardar fuori dalla finestra.
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