17 maggio 2018

da “Estasi culinarie” - Muriel Barbery

da “Estasi culinarie” - Muriel Barbery

Il Sapore
Rue de Grenelle, la camera

Quando prendevo possesso della tavola lo facevo da monarca. Eravamo i re, gli astri splendenti in quelle poche ore di banchetto che avrebbero deciso il loro futuro, che avrebbero segnato l’orizzonte tragicamente vicino o deliziosamente lontano e radioso delle loro speranze di chef. Facevo il mio ingresso in sala come il console che entra nell’arena a ricevere le acclamazioni, e ordinavo che la festa avesse inizio. Chi non ha mai assaporato il profumo inebriante del potere non può immaginare l’improvvisa scarica di adrenalina che irradia il corpo da capo a piedi, che scatena l’armonia dei gesti, che cancella ogni fatica e ogni realtà contraria al vostro piacere, l’estasi della sfrenata potenza di chi ormai non deve più lottare, ma soltanto godere di ciò che ha conquistato, gustandosi all’infinito l’ebbrezza di incutere timore.
Così eravamo: regnavamo da sovrani e signori sulle più importanti tavole di Francia, pasciuti dall’eccellenza delle pietanze, dalla nostra gloria e dal desiderio mai sopito, anzi sempre inebriante come l’odore della selvaggina per il segugio, di decidere su quell’eccellenza.
Sono il più grande critico gastronomico del mondo. Grazie a me quest’arte minore è assurta al rango delle discipline più prestigiose. Il mio nome è noto a tutti. Da Parigi a Rio, da Mosca a Brazzaville, da Saigon a Melbourne fino ad Acapulco. Ho creato e demolito reputazioni, sono stato il capo supremo, consapevole e implacabile di tutti quei sontuosi banchetti; con la mia penna ho dispensato sale o miele ai quattro venti attraverso giornali, trasmissioni e dibattiti vari in cui ero invitato continuamente a discutere di argomenti fino ad allora relegati nella nicchia delle riviste specializzate o nella saltuarietà delle rubriche settimanali. Ho trafitto alcune delle più autorevoli farfalle della cucina e le ho esposte nella mia teca per l’eternità. A me, a me solo si deve la gloria e poi la rovina della maison Partais, il crollo della maison Sangerre, lo splendore sempre più sfavillante della maison Marquet. Li ho fatti diventare quello che sono per l’eternità, proprio così, per l’eternità.

Ho racchiuso l’eternità nella scorza delle mie parole, e domani morirò. Tra quarantotto ore morirò – o forse da sessantotto anni non faccio altro che morire, e mi degno di notarlo solo oggi. Comunque sia, il verdetto del medico e amico Chabrot è giunto ieri: “Vecchio mio, ti restano quarantott’ore di vita”. Che ironia! Dopo decenni di abbuffate, di fiumi di vino e ogni tipo di alcol, dopo una vita passata tra burro, panna, salse, fritture ed eccessi ininterrotti, orchestrati con sapienza e curati con minuzia, i miei più fedeli luogotenenti, sua signoria il Fegato e il suo accolito lo Stomaco, sono in forma smagliante, mentre ad abbandonarmi è il cuore. Muoio per un’insufficienza cardiaca. E che amarezza, poi! Dopo aver sempre rimproverato gli altri di non mettere abbastanza cuore nelle loro cucina e nella loro arte non avrei mai pensato che alla fine venisse a mancare proprio a me, che il cuore mi tradisse così brutalmente, con un’arroganza a malapena dissimulata, tanto ha beffato in fretta a mandarmi al patibolo…
Morirò, ma questo non ha importanza. Da ieri, dopo le parole di Chabrot, solo una cosa mi interessa. Morirò, e non riesco a ricordare un sapore che mi frulla nel cuore. So che quel sapore è la verità prima e ultima della mia vita, e possiede la chiave di un cuore che da allora ho messo a tacere. So che è un sapore dell’infanzia o dell’adolescenza, una pietanza primordiale e sublime che precede qualsiasi vocazione critica, qualsiasi desiderio e pretesa di parlare del mio piacere di mangiare. Un sapore dimenticato, annidato nel più profondo di me stesso e ce, alle soglie della morte, si manifesta come l’unica verità che invita sia stata detta – o messa in pratica. Lo cerco, e non lo trovo.
(…)

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