da “Dizionario delle cose perdute” – Francesco guccini
(…)
Il carbone
L’estate oltre a tante altre belle cose, è purtroppo il tragico periodo delle grigliate. Di solito al sabato sera o alla domenica a mezzogiorno, nei boschi o sulle spiaggette dei laghi, sui terrazzi o nei cortili di casa, si innalzano fumi minacciosi quasi a ricordare l’immortale verso del grande (si fa per dire) poeta bolognese Claudio Achillini: “Sudate, o fochi, a preparar metalli…”, anche se non metalli ma fette di carne dal dubbio aspetto, sfrigolanti salsicce e misteriose porzioni di gallinacei vengono messe sulle graticole e, dopo aver ammorbato l’aria intorno, sono servite dal grigliatore di turno (che passa, nell’aspetto, dal felice speranzoso al molto serio preoccupato) ai poveri partecipanti al rito, in parte semicrude e in parte carbonizzate.
È che cuocere alla griglia è un’arte, e non si improvvisa. Gli argentini sarebbero bravi grigliatori, ma non tutti, ovviamente, c’è sempre quello specializzato, il “vero grigliatore” (l’asador, in lingua-gaucha), che possiede anche una sua personalissima ricetta di una salsa, il chimichurri (spero si scriva così), per insaporire la carne, che però, mi assicurano, è tanto buona che è quasi un peccato condirla.
Ma gli argentini grigliano da secoli; noi, forse vittime di film western di seconda categoria, ci proviamo da pochi anni. A volte poi, per accendere il fuoco e fare più in fretta (anche accendere un fuoco è un’arte), ho visto usare dell’alcol (a rischio ustioni) o addirittura la Diavolina, col risultato di impregnare qualunque cosa messa sui ferri di quegli ignobili sapori. Una sofferenza in più. State avvertite, genti: se per caso vi invitano a una grigliata e non potete negarvi, portatevi dietro un paio di sani panini alla mortadella e, come si dice a Bologna, “buona lì!”. Per la grigliata, naturalmente, ci vuole il carbone di legna. Ora lo si vende a sacchetti, ma da dove viene?
Una volta il carbone di legna, o carbonella, era usatissimo, non tanto per le grigliate (che non si facevano) ma per la cucina, prima dell’avvento domestico del gas, e si dice che il ragù alla bolognese non sia più lo stesso se non viene cotto con la lentezza tipica del fornello a carbone, che impiegava anche cinque o sei ore a tirarlo come si deve.
A fare il carbone di legna erano i carbonai. Fra gli altri, carbonai specializzati erano i boscaioli della montagna pistoiese.
Si riunivano in compagnie di circa dieci elementi e si mettevano al servizio delle ditte. Per Santa Maria (15 agosto) si formavano le compagnie; per San Michele (29 settembre), dopo una cena con colossale mangiata e bevuta (sarebbe stata l’ultima per lungo tempo), partivano e tornavano a giugno. Andavano dove c’erano boschi fitti e legna adatta da tagliare: in Maremma, ma anche in Sardegna, in Corsica, a volte fino in Calabria (ma anche in Algeria e in Tunisia).
Mi raccontava un ex carbonaio che, a dieci anni, aveva convinto il padre a fargli saltare la quinta elementare e a seguirlo in Calabria perché aveva sentito dire che in quella terra lontana e sconosciuta “crescevano le melarance sugli alberi e c’era gran quantità di fichi secchi”, evidenti leccornie per un bambino montanaro di quegli anni. Domando: «Le hai poi trovate le melarance?». Risposta: «No. Mangiavamo solo polenta, latte e formaggio, che mi era venuta una gran diarrea. Mi disse mio babbo: “Ma tanto ti passa; o muori o ti passa”. E m’è passata». Pedagogia di una volta.
Un bambino cosa faceva? Il “Meo”, naturalmente. Come ogni “sciolta” o turno di minatori aveva il “Bocia”, un ragazzino che serviva soprattutto a portare in galleria acqua da bere, così i carbonai avevano il Meo (mi dicono derivi da san Bartolomeo, protettore dei bambini, ma non ho trovato riscontri) che era addetto alla cucina, in pratica a fare solo la polenta, perché i nostri carbonai si nutrivano per mesi di polenta e formaggio, e bevevano acqua, il famoso “vino di nuvole”. Mi sono spesso chiesto, da ragazzino, perché non mancasse mai, nella dieta montanara di quei tempi, il formaggio pecorino sardo. Era probabilmente un alimento importato dai carbonai. Per nostalgia?
La vita era durissima, in quegli otto-nove mesi di continuo lavoro: non solo il cibo era scarso e di discutibile qualità (spesso anche il “formentone” per la polenta, comprato dai padroni delle compagnie, era di seconda se non di terza scelta), ma i carbonai dovevano pure dormire per tutto quel tempo alla macchia, in capanne di frasche e su brande di rami e foglie, le “rapazzole”. Dice un’ottava rima, Il lamento del carbonaio:
fabbricano una capanna in suo dimoro
la fabbrican di legno t’erra e sassi
che assomiglia al ricovero de’ tassi
la porta fan di rami e d’altri attrassi
fanno un letto di rami del più fino
bisogna là otto mesi collocassi
e nutrirsi del cibo più meschino
polenta e cacio ‘un si doventa grassi
per risparmiar s’en mangia anche pochino
si dorme duro sotto quelle zolle
col capo in terra come le cipolle.
Il taglio del bosco e la costruzione della carbonaia richiedevano giorni di lavoro, e altri erano spesi per sorvegliare che la legna si trasformasse in carbone vegetale a combustione lenta: doveva “cuocere”, dicevano, non bruciare. La carbonaia era una montagnola conica con un camino centrale e altri cunicoli di sfogo laterali per controllare e regolare il tiraggio dell’aria, coperta da zolle di terra, le “pellicce”, che fungevano da isolante. C’erano carbonaie anche di settecento quintali, ma normalmente erano di trenta-quaranta, da cui si ricavavano dai sei agli otto quintali di carbone.
Pronto che era il carbone, si doveva prima farlo raffreddare e poi insaccarlo e portarlo a spalla (rare volte con i muli) al posto di raccolta. Là la discussione verteva sul peso e sulle decurtazioni che i capi applicavano sul prezzo stabilito per ogni sacco:
Un’altra cosa poi ch’io mi rammento
del lavoro che ci hanno consegnato:
levan di tara il quindici per cento
e dopo vi è un rinsacco smisurato.
Quello lo fan secondo il suo talento
non si accontentan di quello che ti han fatto
fra somelle, rinsacco, e fa ribrezzo
credete Dio che ve lo ruban mezzo.
Un’altra decurtazione dalla paga era calcolata su quanto ogni carbonaio doveva, per il vitto consumato (polenta di granoturco e formaggio, come detto), alla compagnia.
Qualcuno di loro si portava alla macchia un Inferno della Divina Commedia o un Tasso o un Ariosto (ho sentito due ex carbonai discutere sulla validità dell’uno o dell’altro). E qualcuno, che aveva anche capacità di “poesia”, come dicevano, ci ha lasciato Il lamento del carbonaio, già sopra citato.
L’ottava (di venti strofe di endecasillabi, rimati ABABAB più il distico finale CC; incatenata, cioè il distico CC lascia le rime dei versi dispari della strofa seguente obbligate, si confronti “sassi-tassi” con “attrassi-collocassi-grass i”) così iniziava:
Racconterò la vita strapazzata
di chi alla macchia va per lavorare
vita tremenda, vita disperata
chi non la prova non può immaginare
credo all’inferno un’anima dannata
non possa così tanto tribolare
e non lo provi spasimo e dolore
come fa il carbonaio e il tagliatore.
Era conosciuta da molti carbonai e, come spesso accade nel canto popolare, risulta d’autore sconosciuto, anche perché parecchi cantori mettevano il loro nome, come autori, nell’ultimo verso.
Così, se permettete questa leggera licenza, con tutto il rispetto per chi il carbonaio lo ha fatto sul serio (e per l’ignoto autore di questo capolavoro di poesia popolare):
Cose che fan rabbrividire l’osso
pensando ai casi di uno sventurato
son tutte vere ed io provar lo posso
perché più volte mi ci son trovato.
A scriver questa compassion m’ha mosso
benché a comporla non ci son portato
pongo la penna e chiudo il calamaro
son Francesco Guccini carbonaro.
Chiudo con una domanda: ma chi lo fa, oggi, il carbone di legna per le infauste grigliate?
(…)
(…)
Il carbone
L’estate oltre a tante altre belle cose, è purtroppo il tragico periodo delle grigliate. Di solito al sabato sera o alla domenica a mezzogiorno, nei boschi o sulle spiaggette dei laghi, sui terrazzi o nei cortili di casa, si innalzano fumi minacciosi quasi a ricordare l’immortale verso del grande (si fa per dire) poeta bolognese Claudio Achillini: “Sudate, o fochi, a preparar metalli…”, anche se non metalli ma fette di carne dal dubbio aspetto, sfrigolanti salsicce e misteriose porzioni di gallinacei vengono messe sulle graticole e, dopo aver ammorbato l’aria intorno, sono servite dal grigliatore di turno (che passa, nell’aspetto, dal felice speranzoso al molto serio preoccupato) ai poveri partecipanti al rito, in parte semicrude e in parte carbonizzate.
È che cuocere alla griglia è un’arte, e non si improvvisa. Gli argentini sarebbero bravi grigliatori, ma non tutti, ovviamente, c’è sempre quello specializzato, il “vero grigliatore” (l’asador, in lingua-gaucha), che possiede anche una sua personalissima ricetta di una salsa, il chimichurri (spero si scriva così), per insaporire la carne, che però, mi assicurano, è tanto buona che è quasi un peccato condirla.
Ma gli argentini grigliano da secoli; noi, forse vittime di film western di seconda categoria, ci proviamo da pochi anni. A volte poi, per accendere il fuoco e fare più in fretta (anche accendere un fuoco è un’arte), ho visto usare dell’alcol (a rischio ustioni) o addirittura la Diavolina, col risultato di impregnare qualunque cosa messa sui ferri di quegli ignobili sapori. Una sofferenza in più. State avvertite, genti: se per caso vi invitano a una grigliata e non potete negarvi, portatevi dietro un paio di sani panini alla mortadella e, come si dice a Bologna, “buona lì!”. Per la grigliata, naturalmente, ci vuole il carbone di legna. Ora lo si vende a sacchetti, ma da dove viene?
Una volta il carbone di legna, o carbonella, era usatissimo, non tanto per le grigliate (che non si facevano) ma per la cucina, prima dell’avvento domestico del gas, e si dice che il ragù alla bolognese non sia più lo stesso se non viene cotto con la lentezza tipica del fornello a carbone, che impiegava anche cinque o sei ore a tirarlo come si deve.
A fare il carbone di legna erano i carbonai. Fra gli altri, carbonai specializzati erano i boscaioli della montagna pistoiese.
Si riunivano in compagnie di circa dieci elementi e si mettevano al servizio delle ditte. Per Santa Maria (15 agosto) si formavano le compagnie; per San Michele (29 settembre), dopo una cena con colossale mangiata e bevuta (sarebbe stata l’ultima per lungo tempo), partivano e tornavano a giugno. Andavano dove c’erano boschi fitti e legna adatta da tagliare: in Maremma, ma anche in Sardegna, in Corsica, a volte fino in Calabria (ma anche in Algeria e in Tunisia).
Mi raccontava un ex carbonaio che, a dieci anni, aveva convinto il padre a fargli saltare la quinta elementare e a seguirlo in Calabria perché aveva sentito dire che in quella terra lontana e sconosciuta “crescevano le melarance sugli alberi e c’era gran quantità di fichi secchi”, evidenti leccornie per un bambino montanaro di quegli anni. Domando: «Le hai poi trovate le melarance?». Risposta: «No. Mangiavamo solo polenta, latte e formaggio, che mi era venuta una gran diarrea. Mi disse mio babbo: “Ma tanto ti passa; o muori o ti passa”. E m’è passata». Pedagogia di una volta.
Un bambino cosa faceva? Il “Meo”, naturalmente. Come ogni “sciolta” o turno di minatori aveva il “Bocia”, un ragazzino che serviva soprattutto a portare in galleria acqua da bere, così i carbonai avevano il Meo (mi dicono derivi da san Bartolomeo, protettore dei bambini, ma non ho trovato riscontri) che era addetto alla cucina, in pratica a fare solo la polenta, perché i nostri carbonai si nutrivano per mesi di polenta e formaggio, e bevevano acqua, il famoso “vino di nuvole”. Mi sono spesso chiesto, da ragazzino, perché non mancasse mai, nella dieta montanara di quei tempi, il formaggio pecorino sardo. Era probabilmente un alimento importato dai carbonai. Per nostalgia?
La vita era durissima, in quegli otto-nove mesi di continuo lavoro: non solo il cibo era scarso e di discutibile qualità (spesso anche il “formentone” per la polenta, comprato dai padroni delle compagnie, era di seconda se non di terza scelta), ma i carbonai dovevano pure dormire per tutto quel tempo alla macchia, in capanne di frasche e su brande di rami e foglie, le “rapazzole”. Dice un’ottava rima, Il lamento del carbonaio:
fabbricano una capanna in suo dimoro
la fabbrican di legno t’erra e sassi
che assomiglia al ricovero de’ tassi
la porta fan di rami e d’altri attrassi
fanno un letto di rami del più fino
bisogna là otto mesi collocassi
e nutrirsi del cibo più meschino
polenta e cacio ‘un si doventa grassi
per risparmiar s’en mangia anche pochino
si dorme duro sotto quelle zolle
col capo in terra come le cipolle.
Il taglio del bosco e la costruzione della carbonaia richiedevano giorni di lavoro, e altri erano spesi per sorvegliare che la legna si trasformasse in carbone vegetale a combustione lenta: doveva “cuocere”, dicevano, non bruciare. La carbonaia era una montagnola conica con un camino centrale e altri cunicoli di sfogo laterali per controllare e regolare il tiraggio dell’aria, coperta da zolle di terra, le “pellicce”, che fungevano da isolante. C’erano carbonaie anche di settecento quintali, ma normalmente erano di trenta-quaranta, da cui si ricavavano dai sei agli otto quintali di carbone.
Pronto che era il carbone, si doveva prima farlo raffreddare e poi insaccarlo e portarlo a spalla (rare volte con i muli) al posto di raccolta. Là la discussione verteva sul peso e sulle decurtazioni che i capi applicavano sul prezzo stabilito per ogni sacco:
Un’altra cosa poi ch’io mi rammento
del lavoro che ci hanno consegnato:
levan di tara il quindici per cento
e dopo vi è un rinsacco smisurato.
Quello lo fan secondo il suo talento
non si accontentan di quello che ti han fatto
fra somelle, rinsacco, e fa ribrezzo
credete Dio che ve lo ruban mezzo.
Un’altra decurtazione dalla paga era calcolata su quanto ogni carbonaio doveva, per il vitto consumato (polenta di granoturco e formaggio, come detto), alla compagnia.
Qualcuno di loro si portava alla macchia un Inferno della Divina Commedia o un Tasso o un Ariosto (ho sentito due ex carbonai discutere sulla validità dell’uno o dell’altro). E qualcuno, che aveva anche capacità di “poesia”, come dicevano, ci ha lasciato Il lamento del carbonaio, già sopra citato.
L’ottava (di venti strofe di endecasillabi, rimati ABABAB più il distico finale CC; incatenata, cioè il distico CC lascia le rime dei versi dispari della strofa seguente obbligate, si confronti “sassi-tassi” con “attrassi-collocassi-grass
Racconterò la vita strapazzata
di chi alla macchia va per lavorare
vita tremenda, vita disperata
chi non la prova non può immaginare
credo all’inferno un’anima dannata
non possa così tanto tribolare
e non lo provi spasimo e dolore
come fa il carbonaio e il tagliatore.
Era conosciuta da molti carbonai e, come spesso accade nel canto popolare, risulta d’autore sconosciuto, anche perché parecchi cantori mettevano il loro nome, come autori, nell’ultimo verso.
Così, se permettete questa leggera licenza, con tutto il rispetto per chi il carbonaio lo ha fatto sul serio (e per l’ignoto autore di questo capolavoro di poesia popolare):
Cose che fan rabbrividire l’osso
pensando ai casi di uno sventurato
son tutte vere ed io provar lo posso
perché più volte mi ci son trovato.
A scriver questa compassion m’ha mosso
benché a comporla non ci son portato
pongo la penna e chiudo il calamaro
son Francesco Guccini carbonaro.
Chiudo con una domanda: ma chi lo fa, oggi, il carbone di legna per le infauste grigliate?
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