(…)
Palazzo Pamuk era stato costruito, a NiÇantaÇi, al confine di un vasto
terreno che un tempo era il giardino di una grande casa signorile,
dimora di un pascià. Il quartiere NiÇantaÇi ha preso il suo nome dalle
tavolette di pietra che indicavano il luogo dove cadevano le frecce
scoccate, sulle colline deserte, dai sultani riformisti e sostenitori
dell’occidentalizzazione, tra la fine
del XVIII e l’inizio del XIX secolo (Selim III, Mahmut II), per sport o
per diletto, e dove venivano rotte le brocche vuote contro cui
sparavano, a volte, con i fucili (sopra le tavolette erano incisi un
paio di versi che narravano le loro gesta). Quando i sultani ottomani
abbandonarono Palazzo Topkapi, sia perché attratti dall’idea di comfort
occidentale e di novità sia per fuggire alla tubercolosi, e si
sistemarono nei nuovi palazzi costruiti a Dolmabahçe e a Yildiz, i
visir, i gran visir e i principi fecero costruire ville signorili di
legno sulla collina di NiÇantaÇi. Io iniziai le elementari nella casa
del gran visir Yusuf Izzettin Pascià (il liceo IÇik), e continuai i miei
studi nella casa del gran visir Halil Rifat Pascià (il liceo ÇiÇli
Terakki). Queste due case, quando ancora studiavo e giocavo a pallone
nei loro giardini, hanno preso fuoco e sono andate distrutte dalle
fiamme. Il palazzo di fronte al nostro era stato costruito sulle rovine
della casa signorile del ciambellano Faik Bey. L’unica villa vecchia e
solida nei dintorni era la costruzione di pietra, edificata alla fine
del XIX secolo, in cui avevano abitato i gran visir; lì, quando era
crollato l’impero ottomano e la capitale era stata trasferita ad Ankara,
erano stati ospitati i prefetti. Per la vaccinazione contro il vaiolo
andavo nella casa signorile di un altro pascià, che ormai veniva usata
come sottoprefettura. La villa, sede degli Affari esteri, dove
alloggiavano gli ospiti occidentali dell’impero ottomano, le case delle
figlie del sultano Abdülhamit e i resti delle ville crollate - muri di
mattoni, frammenti di vetri rotti, un paio di gradini ormai a pezzi e un
miscuglio di felci e fichi che in me creano ancora oggi una profonda
tristezza, ricordandomi i tempi dell’infanzia - non erano ancora stati
spazzati via dai nuovi palazzi.
Dalle finestre posteriori del nostro
alloggio in viale TeÇvikiye si vedeva, al di là dei cipressi e dei
tigli del giardino, la casa signorile costruita dal tunisino Hayrettin
Pascià, che era stato gran visir per un breve periodo durante la guerra
ottomano-russa. Il pascià, che era un circasso nato nel Caucaso dieci
anni prima che Flaubert scrivesse «Vorrei stabilirmi a Istanbul e
prendermi uno schiavo», negli anni intorno al 1830, quando era ancora un
bambino, fu venduto come schiavo prima a Istanbul, e poi al prefetto
della Tunisia; trascorse così la sua giovinezza in Francia, ma crebbe
imparando la lingua e la cultura araba, e quando entrò nell’esercito, in
Tunisia, fece carriera fino a raggiungere incarichi di alto livello e
fu comandante, prefetto, diplomatico e consulente finanziario, vivendo
sino al suo ritiro, verso i sessant’anni, a Parigi.
Qui Abdülhamit
l’aveva fatto chiamare (su suggerimento dello sceicco Zafiri, che era
anche lui tunisino), e dopo avergli affidato alcuni suoi affari l’aveva
nominato gran visir. Si contò molto sul pascià, che era uno dei primi
esempi particolari, in Turchia (e nei paesi poveri), di
finanziere-amministratore a essere stato chiamato da una nazione
occidentale per salvare il paese dai debiti, proprio perché non era
troppo ottomano, indigeno e turco - come i suoi successori – e ormai
aveva acquisito una mentalità occidentale, pervasa di sogni di riforma,
ma poi fu criticato esattamente per gli stessi motivi, cioè perché non
era abbastanza turco e indigeno. Secondo certe voci, il tunisino
Hayrettin Pascià, quando tornava da palazzo, nella carrozza su cui
saliva prendeva nota dei suoi colloqui in arabo e poi li faceva tradurre
in francese dal suo scrivano. A causa delle dicerie messe in giro dai
suoi oppositori sul fatto che non conoscesse abbastanza la lingua turca,
e poiché alcuni temevano che il suo scopo segreto fosse fondare uno
stato arabo (Abdülhamit prestava fede anche alle denunce che gli
sembravano poco probabili), venne allontanato dal suo incarico.
(…)
Nessun commento:
Posta un commento