(…)
Quando, agli inizi
del viaggio, i gruppi si erano uniti, aveva subito adocchiato la ragazza.
Viaggiava con uno zio ammalato, scosso tutto il tempo da una tosse insistente.
Nei primi giorni l‘aveva guardata a distanza, senza avere il coraggio di
avvicinarla, mentre lei correva da uno all’altro, dicendo buone parole,
aiutando, consolando. Nelle notti del deserto, popolate di serpenti e di paura,
Clemente prendeva l’armonica e le note colmavano la solitudine. Il negro Fagundes
narrava storie di audacia, avventure di brigantaggio, era stato anch’egli con
una banda, aveva ammazzato persone. Guardava Gabriella con occhi umidi e
fedeli, le obbediva ciecamente quando lei gli domandava di riempirle una latta d’acqua.
Clemente suonava per
Gabriella, ma non osava rivolgerle la parola. Fu lei che si avvicinò, una certa
notte, con il suo passo danzante e gli occhi innocenti per scambiare qualche
parola. Lo zio dormiva un sonno agitato dall’asma, ella si appoggiò ad un
albero. Il negro Fagundes narrava:
- C’erano cinque
soldati, cinque scimmioni che noi facemmo fuori a coltellate per non sprecare
le pallottole...
Nella notte scura e
paurosa, Clemente sentiva la vicinanza di Gabriella, ma non aveva il coraggio
di guardare verso l’albero al quale lei si era appoggiata. I suoni svanirono
sull’armonica, la voce di Fagundes spiccava nel silenzio.
Gabriella mormorò
sottovoce:
- Non fermarti, suona
ancora.
Attaccò una melodia
del sertão. La ragazza cominciò a cantare sottovoce. La notte era già alta, i
fuochi morivano, quando lei gli si distese accanto, come se niente fosse. La
notte era così profonda che quasi non si vedevano.
Dal miracolo di
quella notte, Clemente viveva nel terrore di perderla. Sul principio aveva
pensato che dopo l’accaduto non lo avrebbe mai abbandonato, gli avrebbe
affidato il suo destino nelle foreste di questa terra del cacao. Ma presto
dovette ricredersi. Durante la marcia, si comportava come se niente fosse accaduto
fra loro, lo trattava come tutti gli altri. Aveva un carattere allegro e
scherzoso, scambiava
paroline dolci perfino con il negro Fagundes, distribuiva sorrisi a tutti e
otteneva da tutti ciò che voleva. Ma appena scendeva la notte, dopo aver curato
lo zio, si dirigeva nell‘angolo distante dove egli s’era accampato e si
distendeva al suo fianco, come se per vivere questo momento avesse aspettato il
giorno intero. Si offriva tutta, abbandonata fra le sue braccia,
palpitando di
sospiri, gemendo e ridendo.
Il giorno dopo,
quando egli, legato ormai a Gabriella come se fosse divenuta la sua vita
stessa, desiderava concretizzare piani per il futuro, lei rideva soltanto, quasi
a schernirlo e correva via ad aiutare lo zio sempre più stanco e ammalato. Un
pomeriggio dovettero sostare lungo la strada perché lo zio di Gabriella stava morendo.
Sputava sangue e non poteva proseguire. Il negro Fagundes se lo caricò come un
sacco sulle spalle e lo trasportò lungo un tratto di strada. Il vecchio
proseguiva ansimando, con Gabriella al fianco. Morì al tramonto, con un ultimo
fiotto di sangue dalla bocca, e gli avvoltoi che già volavano bassi sul cadavere.
Clemente la vide
orfana e sola, abbandonata e triste. Per la prima volta credette di comprenderla:
non era altro che una povera ragazza, quasi ancora bambina, che aveva bisogno
di protezione. Le si avvicinò, le parlò a lungo dei suoi progetti. Gli avevano
raccontato cose meravigliose su quella terra del cacao verso cui si dirigevano.
Sapeva di persone fuggite dal Cearà senza un soldo che
erano tornate pochi
anni dopo cariche di danaro. Questo egli pensava di realizzare. Voleva
abbattere foreste, ne esistevano ancora, piantare cacao, possedere una propria
terra, fare fortuna. Gabriella sarebbe andata con lui, e quando un giorno fosse
capitato un prete dalle loro parti, si sarebbero sposati. Lei rispose di no,
con un cenno del capo, ma non rideva con il suo riso innocente, disse soltanto:
- No, Clemente, non
vado nella selva.
Altri ed altri
morirono lungo la strada e i corpi furono abbandonati agli avvoltoi. Finì il
deserto, iniziarono fertili terre, cadde la pioggia. Continuava a dormire con
lui, a palpitare, a gemere, a ridere, a riposare fiduciosa abbandonata sul suo
petto. Clemente parlava, ogni volta più scontroso, le spiegava i vantaggi, ma
lei rideva, e scuoteva la testa in un ripetuto no. Una notte, egli ebbe un
gesto di rivolta, la spinse con forza da un lato:
- Tu non sei
innamorata di me!
Immediatamente, come
spuntato dalla notte, apparve il negro Fagundes con il fucile fra le mani e gli
occhi pieni d’odio.
Gabriella disse:
- Non è niente,
Fagundes, va pure. Aveva battuto il capo contro il tronco sotto il quale erano
distesi. Fagundes abbassò la testa, andò via. Gabriella rideva.
L’afferrò per i
polsi, ella stava adagiata fra le foglie, con il volto ferito:
- Ho voglia di
ammazzarti e poi ammazzarmi...
- E perché?
- Tu non mi ami.
- Sei scemo...
- Che farò, mio Dio?
- Affari tuoi... -
rispose, e lo respinse.
(…)
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