18 giugno 2018

da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood

dipinto di Eric Bowman
da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood
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La mia infanzia

Da dove cominciare? Le possibilità di scelta sono due: cominciare dall’inizio oppure no. Il vero inizio è l’inizio del mondo, poi a una cosa è seguita un’altra; ma poiché a questo proposito le opinioni sono discordi, comincerò dalla mia nascita.
Mio padre era Icario, re di Sparta. Mia madre era una naiade. A quel tempo le figlie delle naiadi erano considerate di poco valore; se ne trovavano ovunque. Ma un’origine semidivina non fa mai male. O almeno non subito.
Quando ero molto piccola mio padre ordinò che fossi gettata in mare. Non ho mai compreso il perché, da viva, ma ora sospetto che avesse saputo da un oracolo che avrei tessuto il suo sudario. Avrà pensato che se mi avesse uccisa prima, non avrebbe avuto un sudario e non sarebbe morto. Potrebbe aver ragionato così. In questo caso, affogarmi era un tentativo di realizzare il comprensibile desiderio di proteggere se stesso. Si era sbagliato, o forse era sbagliato l’oracolo - spesso gli dèi parlano troppo sottovoce - perché non si trattava del suo sudario ma di quello del padre di Odisseo. Se la profezia era questa, allora si è avverata, ma tessere quel sudario mi servì più tardi, nella vita.
(Ora non si usa più insegnare il lavoro manuale alle bambine, lo so, ma per fortuna ai miei tempi non era così. È sempre utile avere le mani occupate. Così, se qualcuno fa un’osservazione inopportuna, si può fingere di non aver udito. E non si deve rispondere.) Ma forse la mia idea dell’oracolo e del sudario è infondata. Forse l’ho semplicemente inventata per sentirmi più tranquilla. Sento tante chiacchiere, ora, nelle grotte e nei prati, e talvolta mi è difficile capire se il bisbiglio provenga da altre voci o da quelle che ho nella testa. Uso la parola testa in senso figurato. Quaggiù, facciamo a meno della testa, come tale.
Qualunque sia stata la ragione, ciò che conta è che fui gettata in mare. Mi è rimasto il ricordo delle onde che si chiudevano su di me, del respiro che abbandonava i miei polmoni, del suono di campane che si dice sentano quelli che stanno annegando? No, no. Me lo raccontarono in seguito: c’è sempre un’ancella, una schiava, una vecchia nutrice o un’intrigante qualsiasi pronta a riversare su un bambino il racconto delle prepotenze orribili che gli hanno inflitto i genitori quando era troppo piccolo per ricordare. È un episodio poco entusiasmante, che non migliorò i rapporti con mio padre. Attribuisco a quella vecchia storia - all’esserne venuta a conoscenza - la responsabilità del mio ritegno, della mia diffidenza nel giudicare le intenzioni altrui.
Era stato sciocco Icario a cercare di annegare la figlia di una naiade. L’acqua è il nostro elemento, per diritto di nascita. Anche se non siamo grandi nuotatrici come le nostre madri, abbiamo un modo speciale di ondeggiare sull’acqua e i pesci e gli uccelli marini ci sono molto familiari. Fu uno stormo di anatre striate di rosso vivo a salvarmi e a trascinarmi a riva. Dopo quel presagio, che altro poteva fare mio padre? Mi riprese con sé e mi diede un soprannome: Anatroccolo. Non c’è dubbio che si sentisse colpevole di un’azione che solo per caso non aveva compiuto, tanto da diventare fin troppo affettuoso nei miei riguardi.
Mi era difficile ricambiare il suo affetto. È comprensibile . Camminavo per mano a un uomo che era mio padre sulla sommità di una scogliera o sulla riva di un fiume o lungo un muretto, e mi coglieva il pensiero che avrebbe potuto decidere all’improvviso di spingermi o di colpirmi a morte con una pietra. In quelle circostanze, mostrarmi tranquilla era una sfida. Al ritorno dalla passeggiata mi chiudevo nella mia stanza e piangevo fiumi di lacrime. (Gli eccessi di pianto, ora posso dirlo, sono una debolezza di chi è nato da una naiade. Ho passato un quarto della mia vita terrena piangendo. Per fortuna, allora, si portavano i veli. Aiutavano a nascondere gli occhi rossi e gonfi.) Mia madre, come tutte le naiadi, era bellissima, ma il suo cuore era gelido. Aveva i capelli ondulati, le fossette, una risata argentina. Era sfuggente. Da piccola, spesso cercavo di abbracciarla, ma ricordo che aveva un modo speciale di ritrarsi. Mi piace pensare che sia stata lei a chiamare quello stormo di anatre, ma probabilmente non è così: preferiva nuotare nel fiume che accudire i bambini piccoli e spesso si dimenticava di me. Era stato mio padre a gettarmi in mare, ma lei avrebbe potuto lasciarmici cadere, in un momento di distrazione o di impazienza. La sua capacità di attenzione era scarsa e cambiava rapidamente stato d’animo.
Da quanto ho detto si può dedurre che fin da bambina fui costretta a imparare presto le virtù - ammesso che siano tali - dell’autosufficienza. Non potevo non capire che avrei dovuto badare a me stessa nella vita. Non potevo contare sull’appoggio della famiglia.

traduzione di G. Aurelio Privitera

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