Claude Monet - Emerocallidi
da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa
38. Il silenzio che proviene dal rumore della pioggia si diffonde, in un crescendo di grigia monotonia, nella via stretta che sto fissando. Sto dormendo, sveglio, in piedi contro il vetro, su cui mi appoggio come se fosse tutto. Mi chiedo che sensazioni sono quelle che provo alla vista di questo cadere livido di pioggia opacamente luminosa che [si] evidenzia sulle facciate sporche e, ancor più, sulle finestre aperte. E non so cosa sento, non so cosa voglio sentire, non so cosa penso né cosa sono. Tutta l’amarezza ritardata della mia vita sveste, ai miei occhi senza sensazione, l’abito di allegria naturale di cui fa uso nelle evenienze prolungate di ogni giorno. Noto che, pur tante volte allegro, tante volte contento, sono sempre triste. E ciò che in me verifica questo è dietro di me, come se si sporgesse sul mio appoggiarmi alla finestra, e osserva da sopra le mie spalle, o persino da sopra la testa, con occhi più intimi dei miei, la pioggia lenta, ormai un po’ ondulata, che filigrana di movimento l’aria grigia e uggiosa. Abbandonare tutti i doveri, anche quelli che non ci toccano, ripudiare tutti i focolari domestici, anche quelli che non sono mai stati nostri, vivere di indeterminatezza e di tracce, tra grandi porpore di follia, merletti falsi di maestà sognate… Essere qualche cosa che non senta l’uggia della pioggia esterna, né l’amarezza della vacuità intima… Vagare senza anima e pensiero, sensazione priva di se stessa, per strade che contornano montagne, per valli nascoste fra pendii impervi, lontano, immerso e fatale… Perdersi in paesaggi come quadri. Non essere costituito di lontananza e colori… Un soffio lieve di vento, che dietro la finestra non sento, squarcia in dislivelli aerei la caduta rettilinea della pioggia. Si rischiara una parte del cielo che non vedo. Lo noto perché, dietro i vetri sporchi della finestra di fronte, già scorgo là dentro seppure vagamente il calendario alla parete, che finora non vedevo. Dimentico. Non vedo, non penso. Cessa la pioggia, e di essa resta, per un momento, un pulviscolo di diamanti piccolissimi, come se, in alto, qualcosa come una grande tovaglia si scuotesse azzurramene da queste briciole. Si sente che parte del cielo si è già aperta. Si vede, attraverso la finestra di fronte, più nitidamente il calendario. Ha un volto di donna, e il resto è facile perché lo riconosco, e la pasta dentifricia è la più conosciuta di tutte.
Ma a cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare? Non lo so. Alla volontà? Allo sforzo? Alla vita? Per il fatto che la luce sia notevolmente aumentata si sente che il cielo è già quasi tutto azzurro. Ma non c’è quiete – ah, né ci sarà mai! – in fondo al mio cuore, pozzo vecchio al confine del podere venduto, memoria di infanzia chiusa nella soffitta polverosa della casa altrui. Non c’è quiete – e, povero me! Neppure c’è desiderio di averla…
38. Il silenzio che proviene dal rumore della pioggia si diffonde, in un crescendo di grigia monotonia, nella via stretta che sto fissando. Sto dormendo, sveglio, in piedi contro il vetro, su cui mi appoggio come se fosse tutto. Mi chiedo che sensazioni sono quelle che provo alla vista di questo cadere livido di pioggia opacamente luminosa che [si] evidenzia sulle facciate sporche e, ancor più, sulle finestre aperte. E non so cosa sento, non so cosa voglio sentire, non so cosa penso né cosa sono. Tutta l’amarezza ritardata della mia vita sveste, ai miei occhi senza sensazione, l’abito di allegria naturale di cui fa uso nelle evenienze prolungate di ogni giorno. Noto che, pur tante volte allegro, tante volte contento, sono sempre triste. E ciò che in me verifica questo è dietro di me, come se si sporgesse sul mio appoggiarmi alla finestra, e osserva da sopra le mie spalle, o persino da sopra la testa, con occhi più intimi dei miei, la pioggia lenta, ormai un po’ ondulata, che filigrana di movimento l’aria grigia e uggiosa. Abbandonare tutti i doveri, anche quelli che non ci toccano, ripudiare tutti i focolari domestici, anche quelli che non sono mai stati nostri, vivere di indeterminatezza e di tracce, tra grandi porpore di follia, merletti falsi di maestà sognate… Essere qualche cosa che non senta l’uggia della pioggia esterna, né l’amarezza della vacuità intima… Vagare senza anima e pensiero, sensazione priva di se stessa, per strade che contornano montagne, per valli nascoste fra pendii impervi, lontano, immerso e fatale… Perdersi in paesaggi come quadri. Non essere costituito di lontananza e colori… Un soffio lieve di vento, che dietro la finestra non sento, squarcia in dislivelli aerei la caduta rettilinea della pioggia. Si rischiara una parte del cielo che non vedo. Lo noto perché, dietro i vetri sporchi della finestra di fronte, già scorgo là dentro seppure vagamente il calendario alla parete, che finora non vedevo. Dimentico. Non vedo, non penso. Cessa la pioggia, e di essa resta, per un momento, un pulviscolo di diamanti piccolissimi, come se, in alto, qualcosa come una grande tovaglia si scuotesse azzurramene da queste briciole. Si sente che parte del cielo si è già aperta. Si vede, attraverso la finestra di fronte, più nitidamente il calendario. Ha un volto di donna, e il resto è facile perché lo riconosco, e la pasta dentifricia è la più conosciuta di tutte.
Ma a cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare? Non lo so. Alla volontà? Allo sforzo? Alla vita? Per il fatto che la luce sia notevolmente aumentata si sente che il cielo è già quasi tutto azzurro. Ma non c’è quiete – ah, né ci sarà mai! – in fondo al mio cuore, pozzo vecchio al confine del podere venduto, memoria di infanzia chiusa nella soffitta polverosa della casa altrui. Non c’è quiete – e, povero me! Neppure c’è desiderio di averla…
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