19 giugno 2018

da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood

Jan Styka - Penelope
da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood
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Il mio matrimonio
Il mio matrimonio fu stabilito in seguito a un accordo. Così si faceva allora: per le nozze ci si accordava. E non parlo dell’abito da sposa, dei fiori, dei banchetti e della musica, sebbene anche su quelli ci si accordasse. Come adesso. Parlo di un accordo più sotterraneo.
Secondo le regole di allora solo le persone importanti si sposavano, perché solo le persone importanti avevano un’eredità. Per il resto si trattava di copule di genere svariato - stupri o seduzioni, storie d’amore o incontri di una notte con dèi che dicevano di essere pastori o pastori che dicevano di essere dèi. Ogni tanto veniva coinvolta anche una dea, annaspava in carni deperibili come una regina che gioca a fare la lattivendola, e l’uomo ne aveva in cambio la vita abbreviata e spesso una morte violenta. L’immortalità e la mortalità si mescolano male: tra fuoco e fango, vince sempre il fuoco.
Gli dèi non erano mai contrari alla confusione. Anzi, li divertiva. Guardare un mortale, un uomo o una donna, con gli occhi che friggono nelle orbite per una overdose di sesso fatto con un dio li faceva piegare in due dal ridere. Qualche volta gli dèi erano puerili, in un modo sgradevole. Ora posso dirlo, perché non ho più un corpo, sono al di là di quel genere di sofferenza e gli dèi non ascoltano più. A quanto mi risulta, sono andati a dormire. Nel vostro mondo, non si ricevono visite dagli dèi come una volta, a meno di non
essere sotto l’effetto di qualche droga.
Dov’ero rimasta? Ah sì. I matrimoni. I matrimoni si facevano per avere figli e i figli non erano giocattoli o animaletti domestici, i figli erano veicoli per trasmettere un’eredità. Tutto era soggetto a eredità: regni, ricchi doni di nozze, amori, rancori, lotte sanguinose. Attraverso i bambini si formavano alleanze, le ingiustizie venivano vendicate. Avere un figlio era come liberare una forza nel mondo.
Di fronte a un nemico il meglio che si potesse fare era uccidere i suoi figli finché erano piccoli, per non ritrovarseli alle spalle una volta cresciuti. Se non si aveva il coraggio di tagliare loro la gola, potevano essere travestiti e mandati lontano, o venduti come schiavi, ma finché erano vivi avrebbero sempre rappresentato un pericolo.
Chi aveva figlie femmine doveva sperare che crescessero il più presto possibile per avere dei nipoti. In famiglia era bene che fossero in molti a saper maneggiare una spada o tirare una lancia, perché gli uomini importanti che gravitavano intorno a un re o a un nobile cercavano soltanto un pretesto per portargli via tutto quello di cui riuscivano a impossessarsi, esseri umani inclusi. Un accenno di debolezza da parte di chi deteneva il potere rappresentava immediatamente un’opportunità per un altro, di conseguenza re e nobili avevano bisogno di tutto l’aiuto che riuscivano a trovare.
Inutile dire, quindi, che per me, appena fosse venuto il momento, sarebbe stato organizzato un matrimonio conveniente.
Alla corte del re Icario, mio padre, vigeva ancora l’antica usanza di indire una gara per scegliere chi avrebbe sposato una donna di nobile nascita che veniva, per così dire, messa all’asta. L’uomo che ne usciva vincitore, riceveva in premio la donna e il matrimonio. Si esigeva che andasse a vivere nel palazzo del padre della sposa, ad accrescere il numero dei figli maschi. Con il matrimonio otteneva la ricchezza - coppe d’oro, ciotole d’argento, cavalli, vesti, armi, tutte quelle cianfrusaglie cui si dava importanza tanto tempo fa, quando ero ancora in vita. La sua famiglia era tenuta a consegnare altrettante cianfrusaglie.
Dico cianfrusaglie perché so dove andavano a finire: ammuffite in terra, sprofondate in mare, spaccate o fuse. Ciò che è rimasto è stato messo, in seguito, dentro enormi palazzi dove, strano a dirsi, non risiedono re o regine. Persone in abiti sgraziati sfilano in processione attraverso le sale di questi palazzi, guardando le coppe d’oro e le ciotole d’argento che ormai nessuno usa più. Poi si recano in una specie di mercato all’interno del palazzo e comprano immagini che rappresentano tali oggetti, o una qualche loro riproduzione in miniatura che però non è né d’oro né d’argento. Per questo torno a ricorrere al termine cianfrusaglie.
Secondo le antiche usanze, il bottino matrimoniale restava nel palazzo della famiglia della sposa. Forse per questo mio padre teneva tanto a me dopo che non era riuscito ad affogarmi in mare: dov’ero io, ci sarebbe stato il tesoro.
(Perché mi aveva gettata in mare? È una domanda che ancora mi ossessiona. Non sono riuscita a trovare la risposta, nemmeno quel sudario tessuto all’infinito mi sembra una spiegazione sufficiente. Ogni volta che, da lontano, vedo mio padre vagare tra gli asfodeli
e cerco di raggiungerlo, lui si allontana in fretta, per evitarmi. Qualche volta, ho pensato di essere stata offerta in sacrificio al dio del mare, che si diceva fosse assetato di vite umane. Le anatre mi avevano salvata, non mio padre. Così, da parte sua, almeno apparentemente, aveva rispettato il patto, ammesso che si trattasse di un patto, non era venuto meno alla parola e se il dio del mare non era riuscito a trascinarmi negli abissi per divorarmi, tanto peggio per lui. Più penso a questa versione dei fatti e più mi convince.) Immaginatemi, dunque, come una ragazza intelligente, non particolarmente bella e in età da marito, diciamo quindici anni. Dalla finestra della mia camera, al secondo piano del palazzo, guardo nel cortile i contendenti che iniziano a riunirsi: giovani di belle speranze che vogliono entrare in gara per ottenere la mia mano.
Non resto affacciata, senza ritegno, con i gomiti appoggiati al davanzale come una goffa ancella. No, spio attraverso il velo, dietro le tende. Non posso lasciare che quegli uomini poco vestiti vedano il mio volto senza velo. Le donne del palazzo mi hanno agghindata nel miglior modo possibile, i musicisti hanno composto canzoni di lode in mio onore - «radiosa come Afrodite» e le solite sciocchezze - ma io mi sento timida e infelice. I contendenti, nel cortile, ridono e scherzano, stanno bene tra di loro, non alzano gli occhi verso le finestre.
Lo so che non vogliono me, Penelope l’Anatroccola. Vogliono quello che rappresento - la parentela regale, la montagna di paccottiglia luccicante. Nessuno sfiderà la morte per me.
E nessuno l’ha mai fatto. Non avrei mai voluto essere la causa di un suicidio. Non ero una divoratrice di uomini, non ero una sirena, non ero come mia cugina Elena che voleva sedurre solo per dimostrare di poterlo fare. Appena l’oggetto della sua conquista le strisciava ai piedi - e non passava mai molto tempo - lei lo abbandonava, senza neanche voltare la testa, con una delle sue risate noncuranti, come se avesse visto il buffone del palazzo stare ritto a testa in giù.
Io ero una ragazza sensibile - più sensibile di Elena, o almeno così mi pareva. Sapevo che avrei dovuto offrire qualcos’altro invece della bellezza. Ero intelligente, lo dicevano tutti - veramente lo ripetevano fino ad avvilirmi -, ma l’intelligenza è una dote che un uomo apprezza nella propria moglie finché è lontana. Quando gli è vicina apprezza la sensibilità e l’intelligenza solo se non può avere nient’altro che lo attiri di più.
Il marito più adatto a me sarebbe stato un giovane principe, con grandi possedimenti - uno dei figli del re Nestore, ad esempio. Un legame opportuno per il re Icario. Attraverso il velo, osservavo gli uomini che si accalcavano nel cortile, cercavo di capire chi fosse ciascuno di loro e - un esercizio senza conseguenze pratiche, perché non toccava a me scegliere mio marito - chi mi piacesse di più.
Con me c’erano delle ancelle - non mi lasciavano mai senza compagnia. Finché non mi fossi sposata, rappresentavo un rischio: chi poteva garantire che uno sfrontato cacciatore di dote non avrebbe tentato di sedurmi o di rapirmi e scappare con me? Le ancelle erano la mia fonte d’informazione. Rappresentavano una fonte continua di pettegolezzi insulsi, potevano andare e venire nel palazzo, guardare gli uomini liberamente, ascoltare quello che dicevano, ridere e scherzare con loro finché volevano: a nessuno interessava sapere chi s’infilasse tra le loro gambe.
«Chi è l’uomo con quel grosso torace?» chiesi.
«Oh, quello non conta, è Odisseo» rispose una delle ancelle. Non era ritenuto un candidato importante, almeno dalle ancelle. Il palazzo di suo padre si trovava a Itaca, uno scoglio brulicante di capre; portava abiti semplici, si comportava come chi è abituato, in una piccola cerchia, a fare il bello e il cattivo tempo e aveva già espresso alcune idee complesse che agli altri erano parse strampalate. Ma era intelligente, così dicevano. In realtà lo era anche più di quanto gli sarebbe convenuto. Gli altri dicevano di lui, ridendo: «Non giocare ai dadi con Odisseo, è amico di Ermes». Era come definirlo un imbroglione e un ladro. Suo nonno, Autolico, era famoso per non aver mai vinto una partita onestamente.
«Mi piacerebbe sapere se è veloce nella corsa» dissi. In alcuni regni la gara per la conquista della sposa consisteva in un incontro di lotta, o in una corsa con i carri, da noi si trattava solo di correre a piedi.
«Non può essere molto veloce, con quelle gambe corte» replicò, con poca gentilezza, un’ancella. E veramente le gambe di Odisseo erano corte rispetto al corpo. Quando era seduto non si notava, ma in piedi la parte superiore del corpo era troppo massiccia.
«Non è abbastanza veloce per acchiapparti» aggiunse un’altra. «Saresti felice di svegliarti la mattina e di trovarti a letto con tuo marito e una mandria di mucche?» Era uno scherzo riferito a Ermes, che il giorno stesso in cui era nato aveva rubato parte del bestiame custodito da suo fratello Apollo. «A meno che non ci sia anche un toro» osservò un’altra ancella. «Oppure un caprone» ribatté una terza. «Un bell’ariete robusto! Scommetto che alla nostra Anatroccola piacerebbe! Si metterebbe subito a belare!» «Non dispiacerebbe neanche a me» una quarta ancella si unì al coro. «Meglio un ariete che le pappemolle che si trovano da queste parti.» Ridevano, coprendosi la bocca con le mani, senza più fiato in gola.
Io ero mortificata. Non coglievo il senso più volgare di quegli scherzi, non ancora, e non sapevo esattamente di che cosa stessero ridendo, benché capissi che lo facevano a mie spese. Ma non avevo modo di farle smettere.
In quel momento fece il suo ingresso mia cugina Elena: sembrava che non toccasse terra ma scivolasse sull’acqua, come il cigno dal lungo collo cui pensava di assomigliare. Aveva un modo speciale di camminare ondeggiando e lo accentuava di proposito. Il matrimonio in questione era il mio, ma lei voleva tutta l’attenzione per sé. Era bella, come al solito e anche di più: bella in un modo intollerabile. Vestita alla perfezione. Menelao, suo marito, ci teneva in modo particolare, era molto ricco e poteva permetterselo. Lei inclinò il viso verso di me con uno sguardo capriccioso, civettuolo. Credo che civettasse con il cane, con lo specchio, con il pettine, con la colonna del letto. Per tenersi in esercizio.
«Odisseo» esordì «sarebbe un ottimo marito per la nostra Anatroccola, che ama la vita tranquilla e certamente l’avrà se lui, come va strombazzando, la porterà a Itaca. Potrà aiutarlo a curare le capre. Sono fatti l’uno per l’altra. Hanno tutti e due le gambe corte.» Pronunciò queste parole con leggerezza, ma spesso più le sue parole erano leggere e più risultavano crudeli. Perché chi ha il dono della bellezza crede che chiunque altro al mondo esista solo come un divertente elemento di contorno?
Le ancelle commentarono con un risolino. Io ero avvilita. Non avevo mai pensato che le mie gambe fossero così corte e meno ancora che Elena se ne fosse accorta. Ma niente le sfuggiva dei pregi e dei difetti fisici altrui. Per questo, più tardi, si sarebbe messa nei pasticci con Paride, tanto più bello di Menelao, che era goffo e con i capelli rossi. Quando diventò un personaggio epico, il meglio che si poté dire di lui fu che aveva una voce molto
forte.
Le ancelle mi guardarono, in attesa della mia risposta. Ma Elena aveva la specialità di lasciare gli altri senza parole. E io non facevo eccezione.
«Non preoccuparti, cuginetta» continuò, sfiorandomi il braccio «pare che sia molto intelligente. Anche tu lo sei, a quanto ho sentito. Così potrai comprendere quello che dice. Io non ci riuscirei mai! È una fortuna per tutte e due che non fossi io la candidata!»
Mi rivolse il sorriso condiscendente di un commensale schizzinoso cui è stata offerta per primo una salsiccia scadente. Odisseo, infatti, era stato tra i pretendenti alla sua mano e, come ogni altro uomo sulla terra, aveva appassionatamente desiderato conquistarla. Adesso era in gara per ciò che riteneva, nel migliore dei casi, solo il secondo premio.
Elena se ne andò, dopo aver inferto la sua puntura. Le ancelle lodarono tra loro la sua bellissima collana, gli orecchini scintillanti, il naso perfetto, la pettinatura alla moda, gli occhi luminosi, il bordo finemente intessuto della sua tunica lucente. Era come se io non esistessi. Ed era il giorno del mio matrimonio.
Un logorio del sistema nervoso. Scoppiai a piangere, come mi sarebbe capitato spesso in futuro, e mi aiutarono a distendermi sul letto.
Così non vidi la gara, vinta da Odisseo. Imbrogliò, come seppi in seguito. Il fratello di mio padre, lo zio Tindaro, padre di Elena - anche se, come ho già detto, secondo alcuni suo padre era Zeus - lo aveva aiutato. Aveva messo nel vino degli altri contendenti una droga, che ne aveva rallentato la velocità, ma non in modo tale che potessero accorgersene; a Odisseo, invece, aveva dato una pozione atta a produrre l’effetto opposto. So che ora questi interventi sono spesso in uso nel mondo dei vivi in occasione di una gara di atletica.
Perché lo zio Tindaro aveva aiutato mio marito? Non erano amici né, in alcun modo, alleati. Che cosa intendeva guadagnarci? Non avrebbe mai aiutato qualcuno – posso assicurarlo - solo per bontà d’animo, e del resto si sa che la bontà d’animo è una merce poco disponibile.
Si diceva, a questo proposito, che Tindaro avesse voluto pagare un servizio che gli era stato reso da Odisseo. Durante la gara che metteva Elena in palio come sposa, nel momento in cui la contesa minacciava di inasprirsi, Odisseo aveva fatto giurare a tutti i partecipanti che avrebbero difeso il vincitore, chiunque fosse, se qualcuno avesse tentato, anche in futuro, di portargli via Elena. Così aveva placato gli animi e Menelao aveva vinto senza ostacoli. Pare che Odisseo, certo ormai di non avere speranze, avesse stretto un accordo con Tindaro: in cambio dell’intervento che aveva assicurato un pacifico e vantaggioso matrimonio alla splendente Elena, gli sarebbe stata data la scialba Penelope.
Ma io ho un’altra idea in proposito: Tindaro e mio padre, Icario, erano entrambi re di Sparta. Avrebbero dovuto regnare a turno, un anno Tindaro, l’anno successivo mio padre e così via. Ma Tindaro voleva il trono solo per sé, come ottenne più tardi. Può darsi, quindi, che avesse interrogato i contendenti sulle loro prospettive e i loro progetti e avesse saputo che Odisseo aderiva all’usanza più recente, in base alla quale la sposa doveva trasferirsi presso la famiglia del marito e non il contrario. Sarebbe stato utile a Tindaro avere me e i miei futuri figli lontano, perché, nel caso di un conflitto aperto, Icario avrebbe avuto meno alleati.
Ci fosse o meno un accordo all’origine, la verità è che Odisseo imbrogliò e vinse. Elena osservava con un sorriso malizioso i riti in preparazione del matrimonio. Pensava che fossi data in pegno a uno zotico qualsiasi che mi avrebbe trascinata in un posto sperduto e deprimente e l’idea non le dispiaceva. Probabilmente conosceva fin dal principio la posta in gioco.
Quanto a me, faticai ad arrivare alla fine della cerimonia - sacrifici di animali, offerte agli dèi, aspersioni sacrali, libagioni, preghiere, canti interminabili. Mi girava la testa. Tenevo gli occhi bassi, così di Odisseo vedevo solo la parte inferiore del corpo. Le gambe corte. Seguitavo a pensarci, anche nei momenti più solenni. Non era un pensiero opportuno - era banale e sciocco, e mi faceva venire voglia di ridere -, ma a mia discolpa devo ricordare che avevo solo quindici anni.

traduzione di G. Aurelio Privitera

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