19 giugno 2018

da Sotto la pelle – Michel Faber


da Sotto la pelle – Michel Faber
(…)
Cercò di proiettarsi avanti nel tempo, immaginandosi parcheggiata da qualche parte con un bel pezzo di autopista accanto; sentiva il suo respiro affannoso contro di lui mentre gli aggiustava i capelli e lo metteva in posizione afferrandolo ai fianchi.
Non era una fantasia abbastanza potente da impedirle di abbassare le palpebre.
Proprio mentre Isseley si stava per mettere alla ricerca di un posticino in cui fermarsi a sonnecchiare per un po’, si stagliò all’orizzonte il profilo di una figura umana. Si riprese istantaneamente, e si guardò gli occhi, raddrizzandosi gli occhiali. Si controllò il viso e i capelli nello specchietto. in via sperimentale sporse in avanti le labbra, color rossetto.
Passando per la prima volta, notò che era un maschio, abbastanza alto, spalle larghe, abiti sportivi. Teneva alzato sia il pollice sia l’indice, con una certa fiacchezza, come se stesse l’ ad aspettare da una vita. O magari, non voleva dar l’impressione di essere troppo impaziente.
Tornando indietro notò che era abbastanza giovane, con un taglio di capelli in puro stille da penitenziario scozzese. Portava vestiti color fango smorto. Riempiva la giacca in modo strabiliante, ma bisognava vedere se si trattava di grasso odi muscoli.
L’ultima volta che gli si avvicinò Isserley si accorse che era insolitamente alto. Vide che la fissava, probabilmente si era reso conto che l’aveva già vista un paio di minuti prima, dal momento che non c’erano molte auto di passaggio. In ogni caso non le fece cenno con maggiore urgenza di prima, stese il braccio con fare ugualmente pigro. non era un tipo che elemosinava.
Rallentò e fermò l’auto proprio di fronte a lui.
– Salta su, - gli fece.
– Salute, - disse lui sedendosi nel posto passeggeri.
A Isserley bastò quella semplice parola, pronunziata senza un sorriso a dispetto dei muscoli facciali coinvolti nell’espressione, per capire qualcosa di lui. Era quel genere di persona che aveva bisogno di deviare dal puro ringraziamento, come se la gratitudine fosse una trappola. nel suo mondo non c’era niente che Isserley potesse fare per farlo sentire in debito; ogni cosa era semplicemente naturale. Si era fermata per caricarlo al ciglio della strada; bene. Perché no? Gli stava regalando quel che un taxi gli avrebbe fatto pagare una fortuna, e di fronte a tutto questo lui aveva detto “salute”, come se lei fosse una compagna di bevute e gli avesse fatto un favore da nulla come passargli il posacenere.
– Nessun problema, – rispose Isserley, immaginando che lui l’avesse ringraziata comunque – Dove sei diretto?
– Verso Sud, – fece lui guardando verso Sud.
Dopo un lungo istante, lui si allacciò con riluttanza la cintura di sicurezza, consapevole che era l’unico modo per farla ripartire.
– Verso Sud dove? – domandò lei ripartendo e dando un colpetto alle frecce e non alle luci o ai tergicristalli o al pulsante dll’icpathua.
– Be’ … dipende, – rispose lui. – Tu dove sei diretta?
Lei fece un piccolo calcolo mentale, poi lo guardò in faccia per capire dove immaginava fosse diretta.
– Non ho ancora deciso, – fece lei. – Per iniziare, direi Inverness.
– Per me Inverness va bene.
– Ma vorresti andare più in là?
– Vado fin dove riesco.
Sullo specchio era comparsa un’altra auto e Isserley doveva capire che intenzioni aveva; quando si girò di nuovo verso l’autostoppista era impassibile. Quel che aveva detto era segno di arroganza? Era un’allusione sessuale? O era soltanto una questione pratica?
– E’ da molto che aspetti? – chiese lei, per stimolare la sua arguzia.
– Scusa?
Sbatté le palpebre, smettendo di far scorrere la cerniera della giacca. L’atto di rispondere a una domanda e insieme di abbassare una lampo era forse più di quello che il suo intelletto poteva gestire? Sul sopracciglio destro aveva una sottile crosta nera in via di guarigione – che fosse caduto dopo aver bevuto troppo? I suoi bulbi oculari erano chiari, si era lavato i capelli in un passato non troppo lontano e non puzzava neppure – che fosse stupido?
– Lì dove ti ho caricato, – riattaccò Isserley, – eri l’ da molto?
– Non so, – disse lui. – Non porto l’orologio.
Gli gettò un’occhiata al polso; era grosso, con una sottile peluria dorata, e due vene bluastre che gli attraversavano il dorso delle mani.
– Be’, ti è sembrato di essere stato lì per molto?
Parve pensarci per un po’.
– Sì.
Sorrise. Non aveva bei denti.
Nel mondo esterno i raggi del sole s’intensificarono all’improvviso, come se un’agenzia responsabile del loro funzionamento avesse notato che stavano lavorando a metà della loro potenza. Il parabrezza si illuminò come una lampada e diffuse lame ultraviolette su Isserley e sull’autostoppista emanando puro colore senza alcuna traccia di brezza pungente del mattino. Il riscaldamento era al massimo, così nel giro di pochi minuti l’autostoppista fu costretto a contorcersi per togliere la giacca. Isserley lo guardò furtivamente, osservando la meccanica dei suoi bicipiti e tricipiti, e le spalle che ruotavano. – Posso mettere questa roba dietro? – chiese infagottando la giacca fra le grandi mani.
– Fa’ pure – rispose lei, notando l’increspature dei muscoli che si esprimevano sotto il velo della t-shirt mentre si girava per buttare la giacca sopra quella di lei. Aveva un addome un po’ grasso – birra, anziché muscoli – ma niente di terribile. Il rigonfiamento dei jeans era promettente, anche se era probabile si trattasse soprattutto di testicoli. Finalmente a suo agio, si sistemò comodamente e le mostrò un sorriso stagionato da una vita intera passata a riempirsi di biada scozzese.
Lei gli restituì il sorriso, chiedendosi se i denti contassero poi tanto.
Sentiva di dover giungere a una decisione. In realtà, a essere sinceri, era più vicina a una conclusione, e sentiva il respiro diventare affannoso.
Si sforzò di prevenire il flusso di adrenalina in arrivo dalle ghiandole, cercando di inviare a se stessa messaggi rilassanti, deglutendo. Va bene, d’accordo, lui era a posto: va bene, lo voleva: ma prima doveva sapere qualcosa su di lui. Doveva evitare a tutti i costi l’umiliazione di lasciarsi andare, di permettere a se stessa di credere che sarebbe andato con lei, per poi scoprire che magari aveva una moglie o una fidanzata a casa ad aspettarlo.
(…)

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