19 giugno 2018

da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood

da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood
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Asfodeli
È buio qui, come hanno fatto osservare in molti. «Il buio della morte» sentivo dire da viva. «I cupi antri dell’Ade» e così via. È vero, è buio, ma l’oscurità ha dei vantaggi – ad esempio se scorgi qualcuno con cui non vuoi parlare, puoi fingere di non averlo visto.
Certo, ci sono i campi di asfodeli. Li si può attraversare, volendo. C’è più luce, e vi si svolge un numero imprecisato di danze insulse, sebbene il nome richiami qualcosa di più suggestivo - il campo di asfodeli ha una cadenza poetica. Asfodeli, asfodeli, asfodeli - sono fiori bianchi abbastanza graziosi, ma dopo un po’ vengono a noia. Sarebbe stato meglio offrire un paesaggio più vario - un assortimento di colori, qualche sentiero sinuoso, una bella vista, panchine di pietra e fontane. Avrei voluto almeno qualche giacinto. Sarebbe stato troppo aspettarsi una spruzzatina di crochi? Ma qui non arriva mai la primavera, non esiste l’alternarsi delle stagioni. C’è da chiedersi chi abbia progettato un posto come questo.
Ho già detto che non vi è altro da mangiare che gli asfodeli? Ma non dovrei lamentarmi.
Le grotte più buie sono le più interessanti, la conversazione riesce meglio, soprattutto se si ha la fortuna di imbattersi in qualche furfante - un ladruncolo, un agente di cambio, un ruffiano alla buona. Come tante fanciulle virtuose, sono sempre stata segretamente attratta da quel tipo di uomini.
Non frequento, però, i livelli più bassi, dove i castighi vengono inflitti a veri scellerati, non sufficientemente puniti mentre erano ancora in vita. Le grida sono insopportabili, anche se la tortura inflitta è mentale, perché i corpi non ci sono più. Gli dèi amano allestire per incanto meravigliosi banchetti - grandi piatti di carne, montagne di pane, grappoli d’uva - e farli sparire all’improvviso. Un altro dei loro scherzi consiste nel costringere i dannati a spingere dei massi su per i fianchi ripidi delle colline. Qualche volta sono tentata di scendere a vedere, per ricordare che cosa significhi avere realmente fame o sopportare una vera fatica.
Ogni tanto le nebbie si diradano e vediamo di sfuggita il mondo dei vivi. È come strofinare il vetro di una finestra sporca e creare uno spazio per guardarvi attraverso. Può succedere che la barriera si dissolva, così da concederci un breve viaggio. Allora l’eccitazione è grande, si sentono una quantità di gridolini.
Queste escursioni avvengono in modi diversi. Un tempo, chi voleva consultarci sgozzava una pecora, una mucca o un maiale e lasciava che il sangue fluisse dentro una buca scavata nel terreno. Noi ne sentivamo l’odore e ci precipitavamo da quella parte, come mosche attratte da una carcassa. A migliaia svolazzavamo con un fruscio intenso, come il contenuto di un gigantesco cestino della carta straccia trascinato da un turbine di vento, mentre qualche sedicente eroe ci teneva a distanza con la spada sguainata finché non compariva l’anima che voleva consultare. Veniva azzardata qualche profezia, ma avevamo imparato a restare sul vago. Perché dire tutto? Volevamo che tornassero a invocarci, sgozzando altre pecore, mucche e maiali.
Quando all’eroe era stato comunicato il giusto numero di parole, ci era permesso di bere dalla buca, e non posso dire che, in quelle occasioni, venissero rispettate le buone maniere. Era tutto uno spingere per farsi largo, un bere e sbavare; molti menti si sporcavano di rosso. Ma che piacere sentire, anche solo per un istante, il sangue scorrere nelle nostre vene che non esistevano più.
Potevamo, talvolta, apparire in sogno, ma il piacere non era lo stesso. Poi vi erano coloro che si trovavano bloccati sulla riva sbagliata del fiume perché non avevano ricevuto una sepoltura adeguata. Vagavano in una condizione infelice, né qua né là, e potevano essere causa di molti disordini.
Ora, dopo centinaia, forse migliaia di anni - è difficile qui tenere il conto del tempo, perché non abbiamo nulla che possa misurarlo - le abitudini sono cambiate. Nessun essere vivente è venuto più nell’oltretomba, e l’immagine della nostra dimora è stata eclissata man mano da strutture molto più spettacolari: fosse infuocate, gemiti e digrignare di denti, vermi che rodono, demoni armati di forconi. Molti effetti speciali, insomma.
Ma, di quando in quando, eravamo ancora evocati da maghi e stregoni - uomini che avevano fatto un patto con le forze degli Inferi - e poi da pesci più piccoli, occultisti, medium, canalizzatori di energia psichica, gente di questo genere. Era molto avvilente doversi materializzare dentro un cerchio di gesso o in un salotto tappezzato di velluto perché qualcuno voleva ascoltarti a bocca aperta, ma era un modo per restare in contatto
con quello che succedeva nel mondo dei vivi. Io, ad esempio, mi ero molto interessata all’invenzione della lampadina e alle teorie del ventesimo secolo sulla trasformazione della materia in energia. Più recentemente, qualcuno di noi è riuscito a penetrare nel nuovo sistema delle onde magnetiche che ora circonda il globo e a viaggiare guardando il mondo
attraverso le superfici piatte, illuminate, che hanno la funzione di templi domestici. Gli dèi
dovevano avere mezzi di questo genere a disposizione per riuscire, un tempo, ad andare e venire tanto in fretta.
Non sono stata chiamata spesso dai maghi. Ero famosa, questo sì - può confermarlo chiunque - ma non volevano evocarmi, mentre mia cugina Elena era molto richiesta. Non era giusto - non avevo commesso niente di infamante, soprattutto in materia di sesso, mentre di lei si conoscevano solo azioni indegne. Certo era molto bella. Si diceva che fosse uscita da un uovo, perché era figlia di Zeus, che aveva assunto la forma di cigno per stuprare sua madre. Teneva molto a questa sua nascita, Elena. Mi domando quanti di noi credessero veramente allo stratagemma del cigno stupratore. Si raccontavano storie del genere di continuo, allora - sembrava che gli dèi non riuscissero a tenere le mani o le zampe o i becchi lontani dalle donne mortali, erano sempre impegnati a violentarne qualcuna.
Comunque sia, i maghi insistevano per vedere Elena e lei voleva compiacerli. Era come un tuffo nel passato avere tanti uomini che la guardavano imbambolati. Le piaceva apparire con indosso ornamenti troiani, a mio avviso troppo vistosi, ma chacun à son goût.
Aveva un modo tutto suo di girare lentamente su se stessa, abbassare la testa e guardare dal basso verso l’alto, con uno dei suoi inconfondibili sorrisi allusivi, chiunque avesse evocato la sua immagine - allora li aveva tutti ai suoi piedi. Oppure si comportava come con Menelao, il marito oltraggiato, quando, durante l’incendio di Troia, stava per ucciderla con la spada della vendetta. Le era bastato scoprire uno dei suoi impareggiabili seni per vederlo cadere in ginocchio a sbavare e chiederle di poterla riprendere con sé.
Quanto a me… dicevano che ero bella, dovevano dirlo, prima perché ero una principessa, poi perché ero una regina, ma la verità è che, sebbene non fossi deforme e nemmeno brutta, non avevo niente da far ammirare. Ma ero intelligente: considerati i tempi, molto intelligente. Pare che fossi nota per questo, per l’intelligenza. E poi per la tela che tessevo, per la devozione a mio marito e per la mia riservatezza.
Quale mago, trafficando tra le arti occulte e rischiando l’anima, farebbe riapparire una donna brutta ma intelligente, brava tessitrice e rispettosa dei propri doveri, invece di una donna che ha fatto impazzire di libidine decine di uomini ed è stata la causa dell’incendio di una grande città?
Io non lo farei, se fossi un mago.
Elena non è mai stata punita. Vorrei sapere perché. Altri, per colpe minori, sono stati strangolati dai serpenti marini, sono affogati nel mare in tempesta, sono stati trasformati in ragni o colpiti da frecce. Solo per aver mangiato la mucca di qualcun altro o per essere stati vanagloriosi. Per questo genere di colpe. Sarebbe logico pensare che Elena avesse meritato almeno una buona frustata, dopo tutto il male e le sofferenze da lei causati. Ma nessuno l’ha frustata. Non che m’interessi.
Neanche allora m’interessava.
Avevo altro cui pensare.
E questo mi porta a parlare del mio matrimonio.


traduzione di G. Aurelio Privitera

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